Il mestiere più bello del mondo

Le fitte file di sedie assemblate nel grande corridoio della scuola elementare si stavano riempiendo. I docenti sfilavano ordinatamente, dopo aver firmato il foglio di presenza, in attesa dell’inizio di quel primo collegio docenti della storia della scuola italiana. Molti volti non nascondevano lo scetticismo. Del resto fino a quel settembre del 1975, il lavoro dell’insegnante era stata una attività esclusivamente individuale.

Un voluto colpo di tosse pose fine al vociare e il Direttore iniziò a presentare la riforma della “democrazia scolastica”, infervorandosi, lamentando una sorta di punizione che la scuola avrebbe dovuto subire grazie agli anni del disordine, della contestazione, della fine di ogni autorità.

Tutta colpa del ’68: fine della scuola seria dove si studia, si boccia, si promuove solo chi merita davvero. Quando pronuncia la parola “merita”, sembra scandire sillaba per sillaba, guardando negli occhi i docenti come a mandare un ordine di servizio. E puntuale, liberatorio, scoppia l’applauso della assemblea.

Il Direttore proseguiva monotono elencando articoli e commi e sottolineando tutti i passaggi in cui appariva chiaro che in fondo toccava ancora a lui dirigere la scuola e che gli insegnanti non avrebbero corso rischi. La maggioranza dei docenti era apertamente con il Direttore. Più lui leggeva articoli e commi e più cresceva l’insofferenza verso la riforma.

Con queste preoccupazioni Carlo si recò quella sera, dopo il Collegio docenti, alla riunione del Comitato dei genitori di quartiere. La sala fumosa del Dopolavoro ferroviario era colma di uomini e donne. Operai in larga parte, casalinghe, qualche impiegato e artigiano.

Carlo aveva dato la disponibilità ad illustrare il nuovo quadro di norme che erano appena entrate in vigore. Lo fece con precisione, accuratezza, essenzialità, non più di 15 minuti, ma al suo intervento era seguito un lungo e imbarazzato silenzio. Quando, infine, si alzò una mano. Era la maestra Rina.

In piedi,con il suo quadernino di appunti, Rina si rivolse alla assemblea: “vedete, disse, nei primi giorni di scuola molte mie colleghe fanno scrivere ai bambini: tema “È autunno, cadono le foglie”. Ma che c’entrano l’autunno, le foglie, con i nostri bambini, il nostro quartiere, le nostre vite? Ecco, la scuola fino ad oggi è stata come un calendario. Inizia con le foglie d’autunno, prosegue con il freddo dell’inverno, le rondini a primavera, i raccolti dell’estate. Una scuola ferma agli anni ’50, all’Italia contadina che non c’è più. Leggono ai bambini dei romani, assiri, babilonesi, fino, se va bene, ai cenni del Risorgimento in quinta. Nei libri di testo non c’è il fascismo, non c’è la seconda guerra mondiale, non c’è la Resistenza che abbiamo combattuto, non c’è la nascita della democrazia, non c’è il lavoro che voi fate ogni giorno. Allora, a parte le norme, cominciamo a chiedere alla scuola di guardare al mondo che c’è, al bisogno del bambino di conoscere la realtà in cui vive, non quella finta e ideologica dei libri di testo”.

Carlo in quella sua classe di quarta elementare aveva tutta l’attrezzatura delle tipografia scolastica di Freinet. E, ricordando quella sera, propose ai bambini di raccogliere a casa i racconti di nonni e parenti sulla Resistenza e la guerra. Organizzò così una riunione di classe.

Quel pomeriggio l’aula era strapiena di genitori seduti sui banchetti dei loro figli. Entusiasti, percepivano che finalmente la loro vita stava entrando nella scuola dei loro figli; che la loro esperienza e quella dei loro genitori poteva diventare insegnamento per i figli. Un operaio infine propose di presentare il giornalino nella sede dell’Arci del quartiere. L’adesione fu entusiasta.

I bambini lavorarono per due mesi interi, raccogliendo una mole preziosa di testimonianze e ricordi. Il giorno della stampa, c’era l’emozione delle grandi occasioni.

Non bisognava fare sbavature, macchie, distribuire bene l’inchiostro sui fogli. E il gruppo dei correttori! Erano lì, inchiodati al testo, in quattro, attenti a leggere e rileggere, se del caso, pronti a consultare il vecchio vocabolario: sul giornale non potevano esserci errori. Poi arrivò il momento del disegno, della decorazione. Ogni giornale un pezzo unico, irrepetibile.

Quel pomeriggio la saletta dell’Arci era strapiena: i bambini, i genitori, vecchi, giovani della associazione che partecipavano incuriositi.

I bambini iniziarono a leggere i brani da loro scritti nel giornalino. Non erano emozionati, ma sentivano che quello era un momento importante: tutti li guardavano e li ascoltavano. A ogni lettura un applauso ma anche commozione, commenti.

Quando l’incontro finì e le persone man mano iniziarono ad uscire dalla sala, Carlo si soffermò a gustare la sensazione della piacevole fatica che sentiva dentro.

Fuori si era fatto buio e Carlo si soffermò qualche minuto prima di entrare nella sua auto. Gustava la sua sigaretta e pensava che in fondo quel lavoro da maestro era il migliore del mondo.

Estratto da un racconto contenuto nel libro “Educo ergo sum”, di Dario Missaglia, 2010, Ediesse.

Dario Missaglia