Europa, considerazioni di un uomo qualunque (quarta parte)

Una scuola europea Da dove si doveva partire? La risposta è scontata: dalla scuola. In specie nei primissimi anni, la scuola forma la mentalità, ma c’è chi arriva a sostenere che forma la stessa “fisiologia” della persona (rimando all’articolo “Tito Mameli, Maestro”).

Lo ha capito benissimo, e sa sempre, la Chiesa, che ha tenuto in mano il mondo dell’istruzione fin dai tempi di Carlo Magno; lo hanno capito benissimo i dittatori, a cominciare da Mussolini.

Purtroppo non lo hanno affatto capito i nostri politici.

Fino a che i nostri studenti studieranno ognuno la storia del proprio Paese, la letteratura del proprio Paese, la storia dell’arte del proprio Paese, non diventeranno mai “europei”.
Ecco una funzione non banale delle materie umanistiche: fare l’Europa, l’avreste mai detto? E sì che sembrano così “inutili”, vedi che scherzi ti possono fare…

Vi sono alcune materie che potrebbero unificare, essendo da un certo punto di vista “neutrali”, se liberate da qualche afflato di partigianeria – come ad esempio la logica, o la storia della scienza – lacune storiche negli ordinamenti scolastici, nel nostro in particolare.
Un nostro liceale ha tutto il diritto di non sapere chi è Newton, o quando è vissuto. Chi glielo ha mai spiegato? E come si fa a pensare che uno capisca il ‘600 o il ‘700 senza sapere chi è Newton? Davvero la conoscenza storica deve ridursi all’apprendimento di una lunga ipotiposi di battaglie militari?

Ma un esempio in positivo di come si potrebbe svolgere questo processo, in specie nello studio della letteratura, ce lo porge la filosofia, che si è mossa autonomamente in senso positivo.

Prendiamo il ‘600, che si presta bene ad esemplificare.
Noi studiamo Cartesio, poi Spinoza, poi Leibniz, poi Locke ecc. Chi ha mai pensato, chi dà importanza al fatto che il primo era francese, il secondo olandese, il terzo tedesco, il quarto inglese?
L’informazione, quando anche la si abbia chiara, rimane, come dire, sottintesa, quasi sullo sfondo, marginale.

Vediamo ora come ci si comporta in letteratura, per lo stesso periodo. Dopo Ariosto e Tasso, ecco che i nostri ragazzi studiano G.B. Marino, o l’Achillini (con tutto il rispetto per entrambi):

Sudate, o fochi, a preparar metalli,
e voi, ferri vitali, itene pronti,
ite di Paro a sviscerare i monti
per inalzar colossi al re de’ Galli.

Intanto in Europa scrivono mostri sacri come Shakespeare, Cervantes, Molière… Un nostro laureato in lettere ha il diritto di ignorarli: a quale programma appartengono, chi avrebbe dovuto insegnarglieli. Modernamente, ha anche il diritto di ignorare Joyce, Kafka, Proust, Musil: mica sono italiani(1)…

Ecco, lettore paziente che hai seguito fino a qui: così l’Europa non si farà mai.

Si dirà: ma c’è il problema della lingua. Certo. Ma ci sono anche ottime traduzioni dei grandi, e ci sono bellissime edizioni con testo originale a fronte, il che potrebbe essere un forte stimolo a considerare con un po’ di curiosità anche le lingue degli altri…

Il nostro problema non è quello di eliminare qualche milione di pellerossa (a proposito: si parla spesso di shoah; ma quante “shoah” ci sono state, ve lo siete mai chiesti? Quella di Hitler non è stata certo la prima, né, probabilmente, quella che ha fatto il maggior numero di vittime…); noi abbiamo un problema meno doloroso e più difficile, quello di amalgamare culture, scoperte, tradizioni secolari e spesso millenarie.

Non servono né la colt a 6 colpi né il Winchester a retrocarica, diciam pure per fortuna; ma investimenti in sapere anziché in armi.

Non è meglio?

Ebbene, è esattamente il contrario di quello che si fa: compriamo pure F35 e tagliamo la scuola, e poi speriamo che l’Europa si faccia da sé. O se no non facciamola, pazienza.

Il nostro destino di colonia, fortemente accelerato da certe trovate geniali, per quanto riguarda noi italiani dalle scimmiotatture dei sistemi di valutazione, dei prestiti d’onore, della “meritocrazia” (sit venia injuria verbis), dalle materie insegnate in un inglese spesso necessariamente maccheronico (a quel povero insegnante, quando ha fatto il suo bravo concorso, chi glielo aveva detto che un giorno non avrebbe potuto più insegnare nella sua lingua madre?), è probabilmente così già segnato: siamo sulla buona strada per entrare nel Medioevo prossimo venturo.

Note:
(1) Per un approfondimento si rimanda a http://matteuzzinumerosei.blogspot.it/2010/10/per-una-scuola-europea.html

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Maurizio Matteuzzi (1947) insegna Filosofia del linguaggio (Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale) e Filosofia della Scienza presso l’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: “L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine?” (in “La regola linguistica”, Palermo, 2000), “Why Artificial Intelligence is not a science” (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., “Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs”, M.I.T. Press, 2005), “La teoria della forma”, Roma 2012.
Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia. È tra i promotori del gruppo dei “Docenti Preoccupati”.

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Immagine in testata di BlackJack0919 / Deviantart (licenza free to share)

Maurizio Matteuzzi