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Danza, musica, mimo e teatro per fare intercultura

Pubblicato il: 28/06/2011 16:50:04 -


Un’esperienza per vincere la sfida dell’integrazione. Grazie allo stare bene col proprio corpo, il “problema sociale” si dissolve, dimostrando che i corpi dei cosiddetti stranieri, da censire, controllare, adattare, integrare, sono opportunità di crescita per tutti.
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Un pomeriggio di inizio giugno con il tempo un po’ incerto, come spesso quest’anno. Il grande cortile della scuola di via Bixio a Roma con tanti bambini vestiti con gilet e camicie bianche, tante bambine con lunghe gonne a fiori e ghirlande nei capelli. Ghirlande anche sulle ringhiere e un lungo palo con tanti lunghi nastri colorati appoggiato da un lato. Siamo nel multietnico quartiere Esquilino, il gruppo dei bambini, la IVB della scuola elementare, si prepara a presentare al suo pubblico “Le danze raccontano”; in quelle danze appare il mondo, un mondo vastissimo con confini che vanno dalla Cina all’Ecuador, dal Bangladesh alla Polonia, con bambine bionde che ballano le danze del capodanno cinese, chi ha gli occhi a mandorla che saltella scatenate tarantelle napoletane o intona romantici canti bengalesi. I bambini sono orgogliosi di mostrare ai compagni le proprie tradizioni e ognuno è contento di essere il più bravo nella lingua e nei gesti da insegnare agli altri, gli altri imitano volentieri e si divertono…


Tutti si mettono a coppie e in cerchio per festeggiare il maggio, ovvero il ritorno della primavera, come si faceva in Toscana (o come ugualmente si fa nelle campagne della Polonia): i piccoli danzatori girano, si muovono svelti, cambiano direzione, ecco che si abbassano, si fermano, battono i piedi, battono le mani, ripartono, si intrecciano, e intrecciano così i nastri… Il risultato è una enorme treccia multicolore che si avvolge intorno al palo e che così, semplicemente, illustra l’efficacia di un lavoro allegro, divertente e pieno di energia.

Ecco come si vince, semplicemente e con un sorriso, la sfida della presenza degli alunni stranieri a scuola. Colpito in pieno proprio dal punto di vista corporeo, il “problema sociale” si è presto dissolto, dimostrando che i corpi dei cosiddetti stranieri, da censire, controllare, adattare, integrare, diventano, con il tempo e la fiducia, opportunità di crescita per tutti, attraverso l’amicizia spontanea tra pari, bambini o genitori. Le classi della scuola pubblica scoprono la bellezza e il piacere dell’incontro, nella consapevolezza che l’altro, come spiega un noto filosofo francese, autore di un saggio sulle “Politiche dell’amicizia”, è amico proprio in quanto è “tutt’altro da me, pur essendo uguale a me…”, in un movimento intrecciato che rafforza l’idea che vivere sia essenzialmente “vivere con” e che l’incontro con l’altro cambi profondamente entrambi, senza più possibilità di tornare indietro.

Il progetto pilota “Sui banchi dell’intercultura”, finanziato con fondi europei FEI e dal MIUR, ha fatto emergere il lavoro degli insegnanti che, in sei diversi Istituti scolastici del Lazio – a Roma, ma anche a Ladispoli e Vicovaro – come nel Veneto o in Piemonte, le tre regioni scelte dal Ministero per l’individuazione di Buone Pratiche in campo interculturale, vivono nelle classi le difficoltà ma anche il piacere del confronto con bambini e adolescenti migranti, e attraverso di loro con famiglie, comunità, tradizioni culturali di tanti altri popoli.


Cinque sensi del corpo, cinque classi dell’Istituto Comprensivo Daniele Manin – tre classi di scuola primaria e due di secondaria di primo grado – che articolano in modi solo apparentemente diversi gli obiettivi del progetto stesso, secondo le differenti competenze, passioni e abilità dei dodici insegnanti e dei cento alunni coinvolti. Ma sono circa duemila gli alunni coinvolti dal progetto a livello nazionale.

Al centro di ogni attività il corpo, nostro spazio e tempo di condivisione comune, e nostro comune contenitore, come sottolineato dagli obiettivi del progetto stesso, ideato nel 2009 da Vinicio Ongini per il MIUR.

Il lavoro di progetto si è sviluppato, durante l’anno scolastico appena concluso, sotto la guida esperta di Stefania Guerra Lisi, autrice del metodo della Globalità dei Linguaggi, che ci ha riuniti, alunni e insegnanti, intorno alla possibilità di far esprimere creativamente il corpo, con un lavoro di sovrapposizione di colori e materiali che ha coinvolto tutti i cinque sensi, senza limiti. Il risultato del lavoro, i nostri lenzuoli multicolori, non sono panni che possiamo tenere in famiglia, vorremmo esporli a quante più finestre possibili perché l’esperienza sia replicabile in altre scuole pubbliche…

Il lavoro di tutti, insegnanti e alunni delle classi IIIA e IVB della scuola primaria Di Donato, IIIB della scuola primaria Alfredo Baccarini, IG e IIE della scuola media Manin, sotto la guida della dirigente Maria Letizia Ciferri, ha messo in evidenza, attraverso il teatro, le danze, la musica, le immagini e le esplorazioni sensoriali, come il corpo sia quel territorio che tutti ugualmente abitiamo, “noi” e “loro”, ben prima e al di là delle nostre profonde differenze sociali e culturali e che “star bene nel proprio corpo” sia obiettivo comune a tutti i popoli, quindi nostro universale comune denominatore.


Riconoscere la nostra comune storia di esseri umani dotati di un corpo senziente significa scoprire che non esiste possibilità di reciproco ascolto e accoglienza senza il riconoscimento di questa fortissima radice comune che ci unisce e che ci vede esperire il mondo attraverso una comune esperienza sensoriale, ben prima dell’articolazione del linguaggio e del pensiero, che ci possono invece facilmente dividere.

Il progetto “Sui banchi dell’intercultura” è stato reso possibile dalla Commissione europea, Fondi per l’Integrazione dei Cittadini dei Paesi Terzi, che ha messo a disposizione gran parte del finanziamento necessario, dal Ministero dell’Interno e quello della Pubblica istruzione, dall’Ufficio Scolastico Regionale che, con i suoi funzionari, ha seguito con tenacia e passione le scuole del Lazio attraverso tutto il percorso di lavoro. Il lavoro ci ha permesso di capire ancora una volta che “non c’è democrazia senza rispetto della singolarità o dell’alterità irriducibile”, in quella che chiamano – con una brutta parola – “tolleranza”, ma che – e soprattutto – non c’è neanche democrazia senza “comunità degli amici” (“koinà tà philon”) perché “ogni altro è un altro, tutt’altro, ma ugualmente tutt’altro”.

Per questo voi, “voi che venite, che state per venire” e, aggiungiamo noi riferendoci alle ultime cronache, ancora venite attraversando pericolosamente il mare, le strade e i cieli, “voi siete l’avvenire, un futuro talvolta previsto, talvolta prescritto”, e che io, io che vi accolgo nel mio Paese “sono forse già un po’ simile a voi che forse siete un po’ come noi, un po’ dei nostri”.

Maia Giacobbe Borelli

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