Natale in buona compagnia

Nelle biblioteche scolastiche, di ogni ordine e grado, non è difficile “fare incontri” con la narrativa italiana – ma anche straniera – per l’infanzia e l’adolescenza, siano essi racconti, storie brevi, fiabe e favole, siano i cosiddetti “classici”, quelli, cioè, che continuano a parlare anche alle nuove generazioni, che non hanno finito di dire ciò che hanno da dire (Calvino).
È vero quei libri “fuoriclasse” raccontano storie lontane, per il contesto storico, le valenze culturali, l’immaginario in cui si svolgono, per il linguaggio, lo stile, il ritmo narrativo dell’autore, ma grazie ad essi – d’accordo con Faeti – è possibile scoprire ambienti, atmosfere, personaggi e valori oggi dimenticati o perduti, eppure ancora così significativi per la vita dell’uomo. Dunque è qui il senso di ri-proporli ai giovanissimi lettori di oggi: possono configurarsi come strumenti di legame generazionale, d’identità culturale e persino multiculturale.

I “classici” tra l’Ottocento e primo Novecento generalmente sono scritti da uomini, così sembra alla luce dei libri che si trovano sugli scaffali delle biblioteche scolastiche. Per di più sembrano scritti più per giovani lettori che per giovani lettrici. Già! Sostanzialmente i protagonisti sono maschi: le bambine sembrano escluse da quell’universo di suggestioni, azioni, avventure, desiderio di conoscere/rsi, sperimentare/rsi (1). C’è dunque un ritardo sia della scrittura femminile, sia dell’attenzione verso le bambine e le giovanissime donne.

D’altra parte le donne hanno occupato spazi letterari, con l’estensione dell’alfabetizzazione, con il progredire della consapevolezza del proprio ruolo sociale insieme all’acquisizione di alcuni diritti civili. È singolare quanto rileva Virginia Woolf (2): per una donna era impossibile dedicarsi alla letteratura in quanto non possedeva denaro e una stanza tutta per sé. Pur tuttavia, nell’Ottocento e primo Novecento ci sono esperienze letterarie femminili che, sebbene non necessariamente caratterizzate da una specifica “presa di coscienza”, sono liquidate da “esperti e critici” (uomini) come senza valore per autobiografismo compiaciuto ed esasperato sentimentalismo.

Avevo circa 9 anni quando ho cominciato a leggere alcuni classici di scrittura al femminile. A quel tempo, solo a seguito di una riconciliazione di mio padre con la famiglia di origine, venni a sapere di avere una zia.
E che zia: una professoressa di matematica! Ancor prima di conoscerla “vis à vis”, m’inviava per posta – ogni due tre/mesi – un libro insieme a una lettera con cui m’invitava a leggerlo, anticipando per linee essenziali la trama e chiudendo la lettera con un perentorio “ti piacerà, sono sicura” .
Certamente curioso: una professoressa di matematica che amava la lettura! Ho letto i primi due libri per farle piacere, gli altri per un piacere tutto mio.
E cosi alle soglie dei dodici anni avevo già letto tutta la quadrilogia della scrittrice americana Louisa May Alcott – da Piccole donne (1869), a Piccole donne crescono a Piccoli uomini (1871), a I ragazzi di Jo (1886) – ove racconta, anche con un certo umorismo, episodi autobiografici della sua infanzia con le sue tre sorelle (3).

Forse non ero in grado di capire certi passaggi, né tantomeno l’attenzione pedagogica della scrittrice alla crescita della donna e dei suoi problemi individuali, familiari e sociali, ma alcune pagine mi hanno davvero aiutato a crescere e divertito… anche se per un po’ di tempo – con un certo fastidio – ho pensato che mia zia fosse una suora, visto che tra le pagine non mancavano continui inviti e richiami alla rassegnazione, alla preghiera, a una stucchevole bontà.
Ero affascinata – e in un certo senso mi riconoscevo – soprattutto, dalla personalità di Jo: impulsiva, irrequieta, anticonformista e anticonvenzionale. Una bambina non certamente tutta fiocchi e moine: infatti, rompe con gli schemi di femminilità, tradizionali, pre-confezionati e consolidati, rifiuta i luoghi comuni, sogna di diventare una scrittrice famosa.

Anche mia madre – forse in competizione e temendo di sentirsi da meno rispetto alla zia – prese a regalarmi qualche libro. Non sapeva un granché di libri per ragazzine e per di più scritti da donne: aveva frequentato a mala pena la scuola elementare; certamente si era fatta consigliare in libreria.
Ogni “suo” libro aveva proprio la solennità di un regalo importante; mia madre godeva della mia meraviglia (che in realtà enfatizzavo per corrispondere alle sue aspettative) quando aprivo, di volta in volta, i regali impreziositi da carta velina e in carta lucida (immancabilmente rosa), da nastri e fiocchi di raso con quell’art
e speciale che mettono i giovani di negozio nell’involtare la roba venduta (4).
Cominciò con Pattini d’Argento (1865) della scrittrice olandese Mary Mapes Doges. Aveva persino trovato il pretesto: a quei tempi, infatti, ero appassionata, e avevo una certa dimestichezza, di pattinaggio sia a rotelle, sia su ghiaccio.
Leggendo alcune pagine del libro immaginavo di volteggiare su piste ghiacciate, anche sotto la luce amica della luna, con i due fratelli, protagonisti della storia che si svolge in un paesino dell’Olanda dell’Ottocento.
Ben più bravi di me, scivolavano sul ghiaccio come se ai piedi avessero avuto ali e non i rozzi pattini di legno che essi stessi avevano costruito per partecipare alla prestigiosa corsa sui pattini da ghiaccio e vincere un paio di pattini d’argento.

Mia madre mi regalò successivamente Incompreso, di Florence Montgomery.
Ho pianto leggendo il libro – avevo circa 13 anni – e ho pianto sulla spalla di mia madre, vedendo il film di Comencini (5), dopo qualche anno.
Potrebbe sembrare banale e ossimorico affermare Mi è piaciuto tanto … ho tanto pianto, ma è proprio così.
Oggi consiglierei la lettura innanzitutto ai genitori, a quelli che – ingabbiati da arrivismi e narcisismi – disattenti e distaccati, mettono all’angolo affetti, sentimenti e responsabilità.
Non meno lacrimevole è la storia di Tom, schiavo nero, attorno a cui si intrecciano le storie di altri personaggi, protagonista di La capanna dello zio Tom (1850 ca. di Harriet Beecher Stowe), il successivo romanzo regalatomi da mia zia.
Ed ecco, ancora mia madre, con il Piccolo Lord (1886, di Frances Hodgson Burnett) che racconta la storia del piccolo Cedric, educato dal nonno ai modi aristocratici – come si conviene, per l’appunto, a un piccolo lord. Ma Cedric è spudoratamente irreale: troppo bello, perfetto, un concentrato di virtù morali e d’innate qualità, ivi comprese eleganza e prontezza di spirito.

Di contro, la zia mi regalava, sempre di quest’ultima scrittrice, Il giardino segreto (1910). Ma qui è protagonista Mary che è proprio all’opposto di Cedric: tanto Cedric è un bambino perfetto, bello, buono, gentile, quanto Mary è bruttina, malaticcia, antipatica e capricciosa.
Sono convinta: a nessuna donna piace pensarsi (o ri-vedersi) così da bambina, né insegnanti o mamme intendono proporre questo “modello” di bambina anche perché, credo, temono di ferire quelle ragazzine che – alle prese con inquietudini, desideri, incertezze, conflitti, il tutto all’interno di un corpo che cambia rapidamente – faticano ad accettarsi e si sentono “orribili”.
Pur tuttavia va considerato che in questo modo l’autrice demolisce lo stereotipo della bambina vittoriana gentile e graziosa, tutta pizzi e trine; insomma un romanzo critico verso la società del tempo.
La storia d’altra parte è avvincente: Mary percorrerà uno straordinario itinerario di trasformazione di sé, in cui coinvolge il cugino Colin, attraverso la frequentazione di un giardino segreto in cui è proibito entrare e di cui Mary troverà la chiave.

Dopo Pollyanna e Pollyanna cresce, della scrittrice statunitense Eleanor Hodgman Porter, rispettivamente del 1913 e del 1915, mia madre ha smesso di comprarmi libri. Pollyanna è una ragazzina solare, buona (decisamente troppo) che, con il suo “gioco della felicità” (6), conquista via via e sempre di più tutte le persone che la circondano, anche la stessa zia Polly, nubile e arcigna, con il cuore indurito dalle circostanze della vita e dalla solitudine.
Senza voler essere “anti-sentimentilalista”, l’ottimismo di Pollyanna è condotto agli estremi al punto che la psicologia cognitiva definisce “sindrome di Pollyanna” quella sorta di ottimismo (“idiota”) per il quale si tende a percepire, ricordare e comunicare in modo selettivo soltanto gli aspetti positivi delle situazioni, ignorando quelli negativi o problematici.

Se mia madre dai libri era passata a concreti consigli e modelli di abbigliamento adatto a una giovinetta, mia zia ha continuato a regalarmi altri romanzi come La piccola Fadette (7) (di
Amantine Aurore Lucile Dupin, scrittrice francese conosciuta con lo pseudonimo George Sand) e romanzi di Virginia Woolf, scrittrice impegnata attivamente nella lotta per la parità dei diritti tra i due sessi.

Solo allora compresi le ragioni che avevano spinto mia zia a regalarmi “certi” libri.
Per molti anni con mia zia tenni un intenso epistolario, informandola sulle mie letture, sulle mie scelte di studio e di lavoro, sui miei sogni e progetti realizzati e non.
Intanto io stessa compravo libri per me; e per molto tempo, solo scritti da donne: dal romanzo gotico Frankenstein (1831, di Mary Shelley), a Orgoglio e pregiudizio ed Emma (della scrittrice inglese Jane Austen, rispettivamente del 1813 e del 1815), nonché i romanzi Jane Eyre, Cime tempestose e Agnes Grey scritti a metà Ottocento, rispettivamente dalle tre sorelle Brönte.

Poi ho comprato e letto altri e tanti romanzi, classici e non, ovviamente anche di scrittori e non più soltanto stranieri, dai cosiddetti romanzi di formazione (8) a quelli di vario genere (avventura, fantascienza, storico, poliziesco, comico…fino a quelli d’evasione o rosa).

Potrei parlare a lungo di romanzi che si caratterizzano per l’intensa e accurata analisi psicologica dei personaggi, per ambienti e paesaggi splendidi o tetri, per situazioni ed episodi realistici o fantastici, per eventi straordinari e – senza negare suspense – pieni di colpi di scena o prevedibili, lineari, lacrimevoli, consolatori, romanzi che bandiscono stereotipi e banalità, altri che coniugano affermazioni semplici ad un’ironia inquietante… ma questa è un’altra pagina.

Tutti, nessuno escluso, mi hanno dato qualcosa: mi hanno fatto pensare, elaborare sentimenti ed emozioni, mi hanno aperto orizzonti, mi hanno insegnato a guardare/considerare eventi, persone, comportamenti da prospettive diverse… mi hanno aiutato a crescere.

Note:
(1) Alle bambine viene riduttivamente consegnata la letteratura delle buone maniere che trova il suo fondamento negli intenti moraleggianti del libro Les petites filles modèles (1858) della Contessa di Ségur; la scrittrice, infatti, indica un modello educativo improntato alla mite sottomissione, alla perfetta pratica dei do¬veri e – ovviamente – alle “buone maniere,” a cui devono pervenire le piccole protagoniste grazie ad ammonimenti e dispositivi anche di una certa valenza coercitiva.
(2) Nel corso di una conferenza (1928) sul tema “Le donne e il romanzo” .
(3) Le quattro sorelle March – Margaret, Meg, sedici anni, florida, graziosa, capelli castani, mani bianchissime; Giuseppina, Jo, quindicenne, tutta braccia e gambe, angolosa, occhi grigi, folti e lunghi capelli , spalle quadrate, mani e piedi grandi di ragazza cresciuta tropo presto. Elisabetta, Beth, tredicenne, timida, gentile, riposante, sempre assorta come se vivesse in un suo mondo di sogno; Amy: una bambola bianca, dodicenne, con gli occhi azzurri ed i capelli biondi, tutta contegnosa come una gran dama – (in “Piccole donne” di L. Alcott, Ed. Salvadeo- Collana Fiordaliso, pp.10-11) hanno sì diversi sogni, desideri e percorsi di crescita, ma tutti improntati al bisogno di affermarsi misto ad audacia, autodetermimazione, speranza.
(4) A pensarci, oggi mi viene in mente la stravagante, quasi maniacale descrizione del protagonista del”L’uomo dal fiore in bocca” (opera teatrale di L. Pirandello, intensamente emotiva e straordinariamente drammatica; un atto unico ambientato nel caffè di una stazione di provincia) sull’arte del confezionare pacchetti-regalo.
(5) Il film (1966), però, non è fedele al libro: Comencini cambia sia l’ambientazione storica sia i nomi e, inoltre, introduce “pezzi” che non sono presenti nell’opera.
(6) Consiste nel riflettere che in fondo può sempre andare peggio o nel trovare qualcosa per essere soddisfatto anche se si è tristi.
(7) Fadette (una ragazzina goffa e arruffata, magra e nera come un grillo, cresciuta tra deplorevoli maldicenze) è disprezzata da tutti sia per i comportamenti anticonformisti, sia perché è la nipote di Nonna Fadette, la guaritrice del villaggio – sospettata da sempre di una complicità del demonio – dalla quale impara la medicina e dell’uso delle erbe. Riuscirà a far cadere chiacchiere e pregiudizi, anche quelli più tenaci.
(8) Oggi s’intende non solo quel genere letterario in cui si racconta l’evoluzione del personaggio verso la maturità e l’età adulta; accanto al protagonista adolescente che si forma, cresce e matura, attraverso le vicende narrate, il lettore coetaneo che si rispecchia, si riconosce e si identifica nelle imprese e problematiche psicologiche ed affettive, nei sogni e desideri, nelle ansie, paure e speranze del giovane protagonista.

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Immagine in testata di Arte nei sensi

Patrizia Costanzo