ClanDESTINI (terza puntata)

Didier raccolse la salsa di pomodoro degli spaghetti col pane, pane di grano duro, e registrò che Linda lo rispettava come era dovuto e Tina meno… e tutt’e due non credevano a quello che raccontava, come fosse un clandestino bugiardo o pazzo. Bella storia da inventarsi una guerra! Ma che ne potevano capire, loro?

Il pane di grano era diverso dalla manioca, molto più buono! E lì c’era tempo per fare di tutto, senza nessuno che ti dava ordini o ti sparava. Quella vita nell’ospedale, con tutta la scuola che qui ci avevano messo insieme, una vita così calma, così poco eroica, non gli dispiaceva per niente, avesse solo potuto star tranquillo per gli assassini che lo cercavano ancora… In fondo, davvero, anche la scuola non gli dispiaceva, almeno finché non si fossero accorti che capiva perfettamente l’italiano e lo sapeva anche parlare mica male! I computer lo affascinavano, con Internet poteva pure far valere un po’ la sua conoscenza della lingua inglese… La maestra Tina, per il resto, lo lasciava in pace.

Cos’aveva, in fondo? Un ospedale pieno di monache, tanta roba da mangiare e le cure mediche, che erano eccezionali… mancavano solo le sigarette.

E un’arma! Non poteva farne a meno, non ne aveva potuto mai fare a meno.

Gli Interahamwe e gli Impuzamugambi ne avevano ammazzata di gente sua! Era diventato soldato quando, dopo l’eccidio del 1994, gli altri lo consideravano quasi uno sport massacrare la gente a colpi di arma da fuoco, machete, e bastoni chiodati.

La cosa che lo faceva infuriare di più, però era lo sfregio per cui i tutsi venivano ‘accorciati’ col taglio della testa! Per i primi tempi sembrava una vendetta, un’opera di giustizia combattere… poi le atrocità che aveva visto fare anche ai suoi lo avevano convinto che in guerra non c’è sempre una parte che ha ragione e una che ha torto, e che la guerra la perdevano tutti, anche se chi soffriva di più erano i civili, non i soldati.

Se poteva tornare normale avrebbe lasciato per sempre le armi, era stanco di doversi giocare la vita ad ogni scontro. E poi quello sembrava un posto abbastanza sicuro, lì, mischiato con gli altri malati bianchi, così lontano, forse non lo avrebbero ritrovato facilmente. Certo non poteva abbassare la guardia.

In infermeria si presentò insieme a Kamal come se non gli avessero detto che poteva alzarsi solo per mangiare e andare al bagno.

Trovò uno dei due infermieri che quella mattina parlavano di lui.

“Che ci fate qui? Non dovete alzarvi dai letti, passo io più tardi a medicare le ferite. Sciò.”

Didier posò le stampelle accanto a una lettiga e ci si sdraiò sopra facendo forza con le braccia.

Kamal rimase impalato.

“Sei cocciuto, peggio di un siciliano.”

L’infermiere con i baffi gli voltò le spalle e andò ad aprire un armadio a vetri dove c’erano ferri, garze e medicinali.

Didier lo guardava interessato, lì dentro c’era qualcosa che poteva servirgli. Lanciò un’occhiata a Kamal facendogli un segno con due dita in gola.

Il marocchino sgranò gli occhi e uscì lentamente.

Nella cornice della vetrina c’era una cartolina di una città con un cielo azzurro intenso.

L’infermiera si voltò e vide lo sguardo del bambino “È la mia città, Montelusa, qua vicino, tengo la foto per i forestieri, come te, così capiscono subito dove siamo.”

Tagliò il bendaggio che il bambino aveva intorno al piede e con le pinze e i tamponi di garza cominciò a disinfettargli la ferita.

Curiose quelle forbici con le lame corte e curvate, dietro la vetrina, dentro un grande barattolo, ce n’erano infilate tre altre paia, anche le pinze erano numerose e di diversa misura.

Qualsiasi oggetto è una potenziale arma, gli avevano insegnato quando era stato reclutato, e quelle erano due potenziali armi bianche.

Didier non vide altro degno di interesse.

Dal corridoio si sentivano strani rumori come conati di vomito.

“Mio amico, male.”

“Allora parli, quando vuoi… vado a vedere cos’ha quell’altro, non ti muovere.”

Didier invece si mosse in fretta, andò alla vetrina prese le pinze più lunghe e un paio di forbici, le infilò nella tasca del pigiama e ci mise sopra un bel pezzo d’ovatta. Poi si ridistese.

Giusto a tempo.

“Questo poverazzo ha rimesso la colazione, proprio quando è di turno di pulizia la bruttina antipatica.”

“Ora la chiamo non vi perdete la faccia.” L’infermiere s’avvicinò al citofono sorridendo soddisfatto.

***

Un pomeriggio a giocare coi computer era un’esperienza affascinante, ma si era tanto stancato gli occhi. E non riusciva a dormire. Dormire era l’unica cosa che non gli riusciva bene in quelle stanze nuove e ben ammobiliate.

Si alzò, anche se tutti volevano convincerlo a non camminare troppo con quel piede. L’aria era calda e camminare un po’ nell’ospedale gli avrebbe fatto bene, anche perché doveva ben conoscere tutte le strade, in caso di fuga. Poi niente poteva convincerlo, di notte, che poteva addormentarsi tranquillo, quando il sonno poteva significare non svegliarsi più.

Doveva ritrovare la cameretta di Annunciazione, era in fondo a un corridoio che si apriva sulla destra, l’aveva vista uscire aggiustandosi il velo sui capelli scomposti, lo incuriosiva vedere dove tutte le sere lei andava a dormire.

Doveva stare attento, però, a quella suora; era appena tornata dall’Africa, tanto che ancora non s’era riabituata a portare la divisa. Negli anni passati lontano dall’Italia, come una sula aveva la sua particolare tecnica di caccia e lo puntava; si era fatta troppo vicina, lei sì che avrebbe potuto attentare alla sua vita, avesse capito l’importanza di avere tra le mani uno come Didier. Sospirò. Tutti hanno il loro segreto, nella vita, questo l’aveva capito bene mentre comandava la sua squadra e ubbidiva ai superiori. Ma non era un uccello rapace, quella suora, il suo segreto non era certo quello di essere una spia. Chissà perché lo puntava… chissà qual era il suo segreto.

Si mise a camminare ma non andò verso la sala giochi. In fondo voleva andarsene un po’ in giro, senza aver nulla da fare di importante con solo il dolore alla gamba e al piede a ricordargli del passato.

Gli venne in mente una canzone, e una storia che narravano accanto al fuoco. Parlava di uno spirito compagno che proteggeva il bambino che gli era stato affidato dal destino. Una storia che gli era sempre piaciuta.

(continua)

(La storia di ClanDESTINI è frutto della fantasia degli autori: qualsiasi riferimento con la realtà, fatti, luoghi e persone vive o scomparse, è puramente casuale).

Calcerano e Fiori: il viaggio di Didier, un video riassunto che svela scenari inediti sulla storia di Clandestini

È in libreria “Teoria e pratica del giallo“, la nuova fatica di Luigi Calcerano e Giuseppe Fiori per le stampe di Edizioni Conoscenza.

Qui le modalità per l’acquisto del libro.

Le puntate precedenti

Prima puntata

Seconda puntata

L’intervista agli autori, Il giallo d’appendice


La video presentazione di Luigi Calcerano e Giuseppe Fiori, Un giallo prezioso: ClanDESTINI


Luigi Calcerano e Giuseppe Fiori, narratori e saggisti, vivono e lavorano a Roma. Hanno scritto insieme numerosi romanzi polizieschi. Per ulteriori informazioni si possono consultare:
http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Calcerano

http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Fiori_(narratore)

http://www.luigicalcerano.com

http://www.giuseppefiori.com

Calcerano e Fiori