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L’arcivernice: Un pianoforte e una matita stretta tra i denti (cinquantottesima puntata)

Pubblicato il: 10/05/2013 11:11:43 - e


“È proprio nel tassello fuori posto che trovi la spinta per cercare. Su questa strada, dunque, è plausibile anche che la funzione psicologica, la mente, possa immaginarsi al di fuori della forma anatomica, fuori dalla limitazione corporea.” […] “Il tuo, Ramon, è un mondo isolato dal pathos; dobbiamo usare anche l'immaginazione, in questo enorme gioco”.
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Ramon balza fuori dalla sua coperta e dal suo raffreddore in una specie di esplosione: per un momento, sembra lo Snoopy della danza di primavera, ma poi, in quella sua rinnovata esuberanza, è come in preda a uno Swipe maniacale.

“E innanzi tutto, allora, Mente e Corpo”, dice con enfasi. “Ma perché sempre questo dualismo, e non monismo oppure pluralismo. Esiste la mente, la mente sola, non il sistema cervello/pensiero? Tu che studi psicologia, Giulia, che cos’è la mente?”

“C’è chi bandisce, infatti, come Fodor, sistemi incapsulati”, gli rispondo perplessa, “Fodor esclude, per la mente, una rassicurante architettura: legami, connessioni permanenti, corrispondenze stabili tra la forma anatomica e la funzione psicologica. La mente dici, Ramon? Secondo me abbiamo ancora un sistema che trova difficoltà nel confrontarsi con le metodologie della conferma scientifica. Dove si trova – siamo sempre qui a chiederci – il correlato neuronale della coscienza? Dove si può collocare quella struttura centrale che si interfaccia con noi? Da qualche parte c’è? Sarà una strana orchestra fatta di particelle fisiche. Ma poi chi, che cosa ne è il Maestro?” Cerco di sottolineare, e poi respiro forte: “L’opera c’è, la “musica”; ma ancora, ad esempio, non si è certi se quell’opera viene prima, dopo, o durante l’integrazione percettiva”.

“È che la mente è il più chiaro esempio del principio dell’olismo”, mi risponde Ramon: “il tutto è ben maggiore delle sue parti; quanto meno se le parti sono quelle che conosciamo per adesso; nella mente abbiamo le cosiddette ‘qualità emergenti’…”.

“Forse”, azzardo io, “occorre abbandonarsi a un sentire più fantasioso che scientifico. Si ha a che fare con fatti che non possono ancora essere verificati: tutto all’inizio è legittimo, salvo poi alla fine smentire tutto, ma cosa importa… La mente?” lo sfido un po’: “potrebbe avere la sua collocazione nel cervello. Lì, nel cervello, però forse anche fuori, intorno…”.

Ramon, come previsto, risente qui di un fenomeno afasico: per un momento perde la parola. Ma poi, subito dopo, gli parte la risposta divagante:

“Intorno? No, Giulia, su questa via non ti seguo. Quello che si può aggiungere ai geni, e quindi, forse, la spiegazione è in termini di evoluzione darwiniana, sono i ‘memi’ di Dawkins, come ci spiega Dennett. In questo senso solo, sono intorno. Probabilmente i memi, impalpabili condizionamenti culturali, entrano nella selezione naturale al pari dei geni fisiologici, concorrono a determinare la coscienza”.

“Allora”, dico subito, “si può lasciarsi andare a credere che la nostra coscienza altro non sia se non un tafferuglio di antenati, così, a partire dai nostri genitori?”.

Già, penso intanto, abbandonarsi a un sentire fantasioso… Però l’immaginazione, la libertà, per Ramon, ha un sapore di paura. E tutto ciò per il bisogno di controllare l’imprevedibile, che appunto mette angoscia. Anche le sue parole, ancora non spiegano molto. I memi? La coscienza, così, è un brusio indistinto di voci lontane.

“Il tuo, Ramon, è un mondo isolato dal pathos”, allora gli rispondo, “dobbiamo usare anche l’immaginazione, in questo enorme gioco”.

Tra me e i filosofi c’è sempre questo silenzio: nella Camera Anecoica di Harward si è sperimentato che il silenzio totale è impossibile e irraggiungibile, come la temperatura pari allo zero assoluto. Eppure qui, tra noi, il silenzio assoluto si trova. Quelle che usano Ramon e i suoi amici sono parole antiche che io a volte non sento. Sono parole che, come le musiche del passato, le musiche tonali, ruotano attorno ad un’unica nota su cui si appoggiano, su cui ritornano sempre. Mentre io mi spingo in esplorazioni, nei miei percorsi armonici invento scale nuove che si allargano, si spalmano piano, e che forse all’inizio creano disorientamento rispetto a ciò che ci si aspetterebbe. Lo dico sempre, sarei come John Cage: lui dà solo un impulso, una traccia, e poi l’esecutore completerà come vuole. Certo, anche coi gomiti, coi palmi delle mani sulla tastiera! È proprio nel tassello fuori posto che trovi la spinta per cercare. Su questa strada, dunque, è plausibile anche che la funzione psicologica, la mente, possa immaginarsi al di fuori della forma anatomica, fuori dalla limitazione corporea.

La spinta per cercare… Sì, la ricerca… Ma poi che ne facciamo adesso di questa ricerca, portata come la valigia dell’emigrante.

La voce di Ramon mi interrompe i pensieri: “Sai, come dice Dennet ‘La coscienza umana è essa stessa un enorme complesso di memi, o di effetti provocati dai memi nel cervello. Si può capirlo pensando al funzionamento di una macchina virtuale neumanniana, implementata sull’architettura parallela di un cervello che non era progettato per attività del genere’ (C. Dennett, Coscienza. Che cos’è, Bari 2009). L’idea è questa”, continua Ramon: “il cervello è una rete neurale, fortemente parallela, mentre noi lo forziamo verso una macchina sequenziale alla von Neumann. La controprova sta negli sviluppi dell’Intelligenza artificiale: problemi fortemente simbolici, a carattere formale, vengono meglio affrontati con programmi ‘cognitivisti’, ossia dotati di semantica esplicita, mentre la simulazione dei processi percettivi ha più successo ricorrendo alle reti neurali e ai sistemi subsimbolici, basati su algoritmi statistici e ciechi su ogni semantica”.

“Qui tutto sembra gelido, metallico, isolato”, lo interrompo con foga. “Si sa, la cultura libera impaurisce, così non ce la vogliono dare, a meno che non sia appunto ingessata fra regole del genere, entro questo tipo di potere”.

Già, penso intanto: siamo in una società pratica, autofaga. Con il mio metodo, almeno, non ci sarebbe più qualcosa di fruibile solo da una élite di cui accrescere ricchezza, che poi alla fine è, ancora e sempre, capacità di potere.

“In quel tuo modello della mente, Ramon”, soggiungo allora, “dove sono finiti gli affetti, le passioni, la parola dell’altro… Il soggetto è il prodotto dell’azione dell’altro. Facciamo esperienza dell’inconscio quando l’altro ci parla. Ma tu lo sai bene, Ramon, perché qui si parte dal pensiero hegeliano. Poi Levi-Strauss, Althusser… Ciò che avviene nel soggetto dipende dall’altro. Sai, Ramon, se proprio vuoi, io, tra i tanti modelli, sarei tentata da quelli basati su un principio di organizzazione gerarchica del processo cognitivo, che si possono far risalire a Jackson – uno dei più illuminati neurologi, vissuto tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo – e che diventeranno poi il tema centrale della scuola di Luria e della neuropsicologia in genere (vedi ad esempio Shallice e Duncan). Qui si afferma che le rappresentazioni cognitive, passando dai centri più bassi a quelli più alti della gerarchia, diventano più generali e meno specifiche. Qui i processi superiori, quelli meno riflessi, opererebbero sulla base di informazioni fornite da sistemi di input che non sarebbero quindi, per dirla con Fodor, sistemi incapsulati, non avrebbero un dominio specifico, una rassicurante architettura; e il già vissuto e il presente verrebbero messi in relazione, integrati”. E aggiungo anche, con bizzarro entusiasmo: “Rappresentazioni di tipo amodale, dunque, e potrebbero essere le più prossime a ciò che sarà poi la semantica, l’intenzionalità, la coscienza”.

Mi avvicino a Ramon, sento forte il bisogno del calore che emana. E poi continuo più dolce: “Vedi, nel mio esempio ci starebbero anche l’eros, il gusto, perfino l’ossessione, vivi e disordinati. La chimica di tutto questo, invece, nel tuo modello, dov’è andata a finire?

Sistemi liberi, diffusi, penso ancora, con una connettività instabile. Però si afferma un sentire sfuggente, e pericolosamente carico, oltretutto, di connotazioni religiose.

Mi stringo ancor di più a Ramon: “Io voglio espormi al mondo, mettermi in contatto con le emozioni, anche sotto, forse, il livello di coscienza”.

Quando era diventato sordo, Beethoven appoggiava al pianoforte la punta della sua matita e la stringeva tra i denti, per sentirne arrivare le vibrazioni.

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Immagine in testata di Wikimedia Commons (licenza free to share)

Giulia Jaculli e Maurizio Matteuzzi

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