L’arcivernice: I personaggi in-esistenti (settantaduesima puntata)

Nel periodo delle vacanze ci si risveglia come in un acquario, come dice Cardarelli, ancorché non sia estate. Non c’è l’ansia del “dovere fare qualcosa”, del “dovere essere là alla tal ora”. Il tempo sembra, all’improvviso, vuotarsi. Ed ecco che Ramon provava lo “straniamento”, quel malinconico disagio dell’essere in un mondo sospeso, dai processi interrotti, nella ricerca di un “senso”. A parte il poltrire, che cosa si potrebbe fare oggi? Dare un’occhiata a qualche libro, per esempio. Ramon si mise a leggere, senza verve, ma sedotto da quella vacuità del dovere e dalla pigrizia del tempo senza scansioni, un libro che aveva sul tavolo, regalo di Natale. “La nonna di Pitagora” un po’ lo incuriosiva; ma entro quella situazione mentale ovattata, in cui i rumori del mondo esterno risultano attenuati, quasi un sottofondo lontano, entro la quale non si vuole fare lo sforzo di uscire dall’ottundimento della coscienza e dalla sospensione della battaglia dell’essere. Così leggeva, ma quasi senza “capire”, cioè non preoccupandosi di ogni sottesa semantica.

L’idea di ricorrere all’arcivernice, tuttavia, non lo abbandonava mai. E così, Ramon cercò di “sverniciare” la zia di Euclide. Spalmò lentamente, con cura. Era pronto con tante domande: l’età ellenistica, quel clima, la biblioteca, il museo, quel periodo spesso degradato a semplice sistemazione e rielaborazione, che viceversa doveva essere stato, culturalmente, così grande e così immenso…

Ramon attese un po’: non succedeva niente! Il personaggio non si animava, non prendeva forma, non compariva. Qual era l’inghippo? L’arcivernice aveva perso i suoi poteri? Ma no, non poteva essere questo il problema.

Ramon ci pensò un po’ su, e la soluzione non tardò a venire: Euclide non aveva zie. Semplicemente e banalmente, la zia di Euclide non era mai esistita, e pertanto non poteva essere richiamata a un’esistenza che non le apparteneva.

Ma allora, che senso aveva tutto il libro che stava leggendo: zie, nonne e monaci inesistenti? E qui si soffermò sulle ricchissime variazioni linguistiche: in-esistenti; prima spiegazione, in privativo: che non esistono; in-esistenti; seconda spiegazione: che esistono dentro, che sono “in”.

Qui gli venne in mente un argomento che tante volte aveva sentito dal suo prof, e che verosimilmente discendeva da Melandri. Supponiamo che si scopra che, storicamente, Aristotele non credesse nel principio di causalità come principio di ragione, o nella teoria della potenza e dell’atto. Che significa, cosa ne dobbiamo dedurre? Semplicemente, che quello stagirita non aveva capito Aristotele!
Supponiamo che si dimostri che Cristo, come figura storica, non credesse all’immortalità dell’anima, cosa ne dovremmo concludere? Che Cristo non aveva capito Cristo. C’è un Aristotele che ha scandito l’ordine del pensiero dell’umanità. Che importa se il signor Aristotele, di Stagira, non abbia proprio detto, scritto, o pensato così? Fosse anche, sarebbe un pre-aristotelico!

Così pensò Ramon, e gli vennero i brividi. Sono più reali le categorie del pensiero o gli uomini, con le loro miserie? Il sein o il dasein, l’essere o l’esserci? L’hic et nunc del singolo, o il pensiero su cui si è ragionato, discusso, sofferto e concluso per migliaia di anni? Diciamoci la verità, che ne sapeva Aristotele dell’aristotelismo?

Tutto ciò diede a Ramon una profonda sofferenza intellettuale. Siamo parte della vita, di un essere impersonale che si dispiega e prescinde dalle nostre private, spesso anguste, trascurabili passioni private; o siamo individualità pura, egoità, esser-io ora e qui? E quale tra esse ha il diritto d’aspirare all’immortalità, l’essere come componente della “vita” o l’essere come individualità personale?

I fiori, le api, i rami, le piante secolari, le grandi idee guida, da una parte; il “particulare” guicciardiniano dall’altra. E, nel mezzo, tanta ansia metafisica per lo scollamento tra il sein e il dasein…

Ma ora il punto che sorse nella mente di Ramon era un altro.
La zia di Euclide, Tomas di Kùndera e i sei personaggi di Pirandello, era giusto e legittimo che non esistessero? Ex-sistere, stare fuori dall’essere… Ma l’essere cos’è, se non le infinite possibilità che sono in noi? Pirandello dice che l’uomo è tanti, uno per ciascuna possibilità di essere che è, o è stata, in lui. E Kùndera aggiunge che il personaggio non nasce dal grembo materno, ma dalla divinazione delle possibilità di essere non percorse in vita dall’autore. In questo senso ogni personaggio letterario è una biografia in un mondo possibile nel senso di Kripke.

Qualcuno ha dato vita alla zia di Euclide, altri all’ippogrifo. Pur non essendo occorsi in questo mondo, non sono tuttavia qualcosa, dove il qualcosa è diverso dal nulla? L’uomo con l’epitelioma, nome di fiore e di morte, non è un archetipo plausibile? La questione, filosoficamente, si sposta dalla modalità de dicto alla modalità de re. C’è un’intrinseca “possibilità” di essere? Perché se sì, questi personaggi, non più in cerca d’autore, ma che l’autore l’hanno trovato, come fai a metterli alla porta, magari per un semplice incidente storico?

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Maurizio Matteuzzi