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L’arcivernice: Husserl: al di sotto della visione ingenua – parte prima (sessantanovesima puntata)

Pubblicato il: 06/12/2013 10:11:48 -


Cosa vuol dire che mi hai “capito”? Tu sei lontano, non vedi il gatto. La mia rappresentazione del gatto è passata in te, si è duplicata, tale e quale, nel tuo “io”? Certamente no. Tu hai ora in te coscienza che “Ramon vede un gatto”. Ma com'è il tuo “gatto”? Magari è pezzato, mentre io ho visto un soriano.
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Forse proprio questo è il tratto peculiare del filosofo: trovare lo scandalo celato al di sotto della visione ingenua. Noi parliamo, e ci comprendiamo a vicenda. Che cosa c’è di strano, se parliamo la stessa lingua è ovvio, no? Questo fatto appare all’osservatore comune del tutto “naturale”. È qui che interviene la filosofia a buttare all’aria ogni cosa. Che cosa passa da me a te quando ti parlo? C’è una qualche forma di “travaso”, e se sì, di cosa? Così pensava Ramon, con inquietudine.

Io ho in me, nel mio “io”, qualsiasi cosa esso sia, una “rappresentazione” derivante da un’esperienza, poco importa qui se sia un’esperienza sensibile o rammemorativa, un’”idea” nel senso degli empiristi, di Locke per dire. Ad esempio, scorgo un gatto che si avvicina lungo il muro, con il suo passo felpato, la sua tipica circospezione. E allora ti dico: “Ecco un gatto”. E tu mi “capisci”.

Cosa vuol dire che mi hai “capito”? Tu sei lontano, non vedi il gatto. La mia rappresentazione del gatto è passata in te, si è duplicata, tale e quale, nel tuo “io”? Certamente no. Tu hai ora in te coscienza che “Ramon vede un gatto”. Ma com’è il tuo “gatto”? Magari è pezzato, mentre io ho visto un soriano. Magari te lo rappresenti di fronte, mentre la mia rappresentazione è di profilo. Le nostre rappresentazioni sono fatti privati, mai e poi mai saranno coincidenti. Ma allora cosa ti ho “passato”, cosa è transitato da me a te? Il gatto della biologia? Certamente no, il gatto della biologia non ha un colore, non ha un’altezza precisa, non ha un’età; questo gatto che si avvicina sì, è, in senso aristotelico, una “sostanza prima”; o se vuoi è cosale; o se vuoi “esiste”, non è un universale, è vivo, e può morire, cioè “essere predisposto per accogliere i contrari”. Il gatto della biologia non può morire; semplicemente perché non può vivere.

“Che cosa gli ho passato, dunque, Maestro?” chiese Ramon, un po’ titubante, e quasi pentito del suo azzardo, aveva una gran paura di non capire. Quel che aveva letto sui manuali gli era parso ostico, complesso, in un qualche senso “sfuggente”.

Husserl si toccò la barba bianca e abbondante del mento, racchiudendola tra il palmo della mano, sul davanti, e il pollice contrapposto, dietro. Il pizzo era abbondante, nel resto del volto si trattava semplicemente di barba non fatta da un paio di giorni. Lo sguardo severo, dietro gli occhiali cerchiati, la figura austera, la bocca resa quasi invisibile dai baffi spioventi, lunghi verso il basso.

“Non è così semplice, Ramon – disse poi lentamente – non è così semplice. Le menti non sono vasi comunicanti. Penso che tu non gli abbia passato niente”.

“Ma… ora il mio amico ha in sé un’informazione, che prima certamente non aveva. E dunque, probabilmente, anche una ‘rappresentazione’. Qualcosa come ‘Ramon vede un gatto’, o ‘c’è un gatto nei pressi di Ramon’. E lui si dovrà pure rappresentare la cosa in qualche modo. Si è dunque data una modificazione del suo ‘io’“.

Lentamente Husserl riprese: “E tu pensi di avere duplicato la tua rappresentazione, e di avergliela in qualche modo inoculata? E come, per ‘azione a distanza’, o grazie alle ‘forze vive’? Vuoi resuscitare le risibili fallacie di secoli ormai remoti, Ramon? Forse è necessaria un’analisi più profonda”.

“Sono pronto a seguirti, Maestro; ma non so andare avanti da solo…”.

“Partiamo dall’inizio del processo, Ramon. All’origine sta sempre e comunque l’’intenzionalità’: tu hai diretto la tua mente sul gatto; la mente è sempre ‘direzionale’, e tu l’hai appuntata sul gatto. Da qui è sorta la tua Darstellung, tu ti sei ‘rappresentato’ il gatto. A questo punto hai deciso di comunicarlo al tuo amico, cioè di ‘oggettivizzare’ l’esperienza. Perché solo rendendola ‘oggetto’ la tua rappresentazione può uscire da te, può essere ‘esternalizzata’, partire dal flusso della tua coscienza per andare nel mondo esterno; al quale anche gli altri hanno accesso. E, a questo punto, hai fatto ricorso al ‘linguaggio’; che proprio in questo consiste, nell’’oggettivazione’ della coscienza”.

“E così ho concepito un enunciato che potesse informare il mio amico…”.

“Piano, Ramon. La strada è ancora lunga, e in salita. Tu hai formulato un’espressione descrittiva, secondo le regole delle Bedeutungskategorien, le categorie che presiedono alla condizione dell”avere un senso’, secondo le regole a priori della legalità linguistica.
A questo punto hai parlato al tuo amico. E gli hai fornito una prima informazione, e cioè che intendevi condividere un’informazione: stavi compiendo un ‘atto significante’, un atto ‘donatore di senso’. Qui poi viene attraversato il piano della forma linguistica, che giunge al tuo amico. Ed ecco che lui è spinto a cercare, nel suo vissuto, quale sia il possibile ‘riempimento’. In sintesi: tu gli passi una ‘forma’, e lui scandaglia la sua Erlebnis per trovare qualcosa che le corrisponda, che vada dentro perfettamente a quello stampo. Trovato il ‘contenuto riempiente’, ecco la saturazione del processo: la forma è ora dotata del suo contenuto. Che tuttavia non sarà mai la tua rappresentazione di partenza, ma una selezione dal ‘suo’ vissuto di quanto di meglio si adatti alla forma oggettivizzante che ha fatto da tramite nella dimensione linguistica. Dalla semantica di A, di partenza, si giunge a come B si rappresenta la semantica di A. La supposta simmetria tra parlante e ascoltatore è una pura finzione”.

Quel che Ramon temeva si stava puntualmente avverando; che fatica seguire la teoresi pura di Husserl, l’analisi fenomenologica…

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Maurizio Matteuzzi

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