L’arcivernice: Finito e infinito (ottava puntata)

Ramon, ancora frastornato dall’incontro con Platone, stava richiudendo il barattolo dell’arcivernice, pensoso e maldestro; tanto che, in modo del tutto distratto, d’istinto, diede qualche pennellata alla prima immagine che gli capitò di vedere, quasi in trance, e solo riavendosi realizzò che quella era l’immagine di Georg Cantor. “Oddio, pensò Ramon, ritornato al reale, oddio, non sono pronto per Cantor, non sono pronto per dialogare con l’ideatore della teoria degli insiemi!”. Ma non poteva farci più niente, l’arcivernice aveva già sortito il suo effetto. Il pizzetto bianco, i baffi invece ancora scuri, l’aria decisamente impettita, Cantor si stava già materializzando di fronte a lui. Tutto quello che Ramon sapeva dai suoi studi era che Cantor aveva fondato la moderna teoria dell’infinito in senso attuale. Molto poco per fare proficuamente domande. E tuttavia doveva non sprecare l’occasione, data la impossibilità di richiamare una seconda volta gli stessi personaggi. Non si poteva sprecare l’occasione. Così si lanciò:

“Maestro, dimmi dell’infinito”.

“Già con le primissime avvisaglie del pensiero filosofico l’uomo rivolge la sua attenzione all’infinito. Già con la scuola ionica, con i primi allievi di Talete. Anassimene pone il principio di tutto, l’arché, nell’aria infinita, l’ ápeiron aér., l’aria indefinita. Poco dopo, Anassimandro parla direttamente dell’infinito tout court, to áperion. Anche in greco il concetto è intrinsecamente difettivo, è definito per negazione del finito: ápeiron, letteralmente ‘che non ha confini’, che non ha limiti. Dunque anche ‘illimitato’, o, in altra accezione, ‘indeterminato’”.

“L’infinito è dunque negativo?”

“Per un greco in un certo senso sì. Forse lo puoi cogliere bene dalla storia dell’arte. Pensa al paradigma classico: l’impianto ben determinato della rappresentazione pittorica, sempre in un certo senso ‘triangolare’, con un centro di attenzione ben definito che tende a coincidere con il centro della figura. Pensa agli edifici simmetrici, al tempio greco, o alle basiliche paleocristiane. Per non parlare degli edifici a pianta centrale”.

“E invece l’infinito…”.

“E invece l’infinito è trasgressione del canone, è negazione del centro, è fuga dai vincoli… È il ‘Monaco in riva al mare’ di Friedrich contrapposto al ‘Cenacolo’ o alla ‘Gioconda’. In un dipinto ‘classico’ tu tracci le diagonali del rettangolo, e trovi nell’intersezione la cosa più importante. Per cogliere appieno il senso della questione bisogna partire dal ‘divieto aristotelico’, da quanto è scritto nel terzo libro della ‘Fisica’. Lì, in stretta coerenza con la sua dottrina della potenza e dell’atto, Aristotele distingue tra un infinito potenziale e uno attuale. Nel primo caso noi siamo di fronte a quantità finite, che tuttavia possono crescere oltre ogni possibile valore predeterminato; nel secondo, viceversa, fronteggiamo infiniti oggetti tutti in una volta, tutti dati. Ora, la conclusione che Aristotele ne trae è molto netta: sul piano scientifico, non abbiamo alcun bisogno dell’infinito in atto, che si presenta, come minimo, problematico, se non addirittura aporetico, ma ci basta quello potenziale. Nemmeno il matematico, che ha a che fare con la più astratta delle discipline, ha bisogno dell’infinito in atto: il geometra avrà bisogno non tanto di una retta infinita, quanto di potere prolungare un segmento tutte le volte che vuole, ossia oltre ogni limite prefissato. Cioè dell’infinito in potenza. Avendo tuttavia sempre davanti a sé un numero finito di elementi”.

“E invece…”.

“E invece di là dal divieto, rispettato da quasi tutti i pensatori per oltre 2200 anni, c’è un paradiso tutto da scoprire, e sono ben lieto che c’è chi l’ha chiamato il ‘paradiso di Cantor’. L’infinito può essere matematizzato, esso, anche nella sua forma attuale, di infiniti oggetti tutti dati e compresenti, può essere oggetto dell’indagine della nostra ragione. Lungo questa via si dischiude la visione, non solo dell’infinito, ma di tanti infiniti, di una catena infinita di infiniti, l’uno ‘maggiore’ dell’altro…”.

“Che senso ha, Maestro, dire che un infinito è più grande di un altro?”.

“E difficile, ragazzo. Vedi, devi vincere i tuoi pregiudizi per capire. Il fatto è che, per gli insiemi finiti, lo stare dentro, cioè, per esprimersi più correttamente, l’essere inclusi, comporta una minore numerosità. Così se l’insieme degli italiani è incluso in quello degli europei, l’insieme degli europei sarà più numeroso di quello degli italiani. Per l’infinito non è più così. Prendi l’insieme dei numeri naturali: 1, 2, 3… e quello dei numeri pari: 2, 4, 6… È evidente che il primo include il secondo, ma non viceversa: ci sono infiniti elementi del primo che non sono nel secondo. Dunque, secondo il senso comune, il primo insieme dovrebbe essere più numeroso del secondo. E d’altra parte, segui il mio ragionamento. Non è forse vero che ogni numero naturale ha esattamente un suo doppio, che appartiene al secondo insieme, essendo pari? E non è forse vero che ogni numero pari è il doppio di esattamente un numero naturale? E allora cosa ci trattiene dal concludere che gli uni sono ‘tanti quanti’ i secondi?”.

Questa considerazione, del tutto ovvia e persino banale lasciò Ramon in un profondo stupore. Eppure il ragionamento non faceva una grinza.

“Dunque Maestro nell’infinito una parte può corrispondere al suo tutto…”


“Precisamente Ramon. Altri, precisamente il grande Dedekind, hanno caratterizzato l’insieme infinito proprio così, come entità riflessiva, ossia che può essere fatta corrispondere a una sua parte propria. Questa non è la mia via per definire l’infinito, e tuttavia merita considerazione. L’essere-minore-di e l’essere-incluso-in, che al finito coincidono, si scollano all’infinito e diventano proprietà separate, per cui si può dare che, sotto una certa accezione, non è più vera quella che per secoli era stata considerata come una verità autoevidente, che il tutto sia ‘maggiore’ della parte”.

“Ma allora, Maestro, tutti gli infiniti sono uguali?”.


“No, Ramon, non è così. Proprio rifondando l’equivalenza in cardinalità sopra il concetto di ‘corrispondenza biunivoca’, possiamo ben convincerci che vi sono infiniti ‘più grandi’ di altri. È questo quello che considero il mio risultato più interessante, il così detto teorema fondamentale, o teorema dell’insieme potenza. In sintesi, prendi l’insieme dei punti di un segmento: esso sarà di numerosità infinitamente più grande dell’insieme dei numeri naturali, non potrai mai mettere gli elementi dell’uno in corrispondenza con quelli dell’altro. Ci sono più punti in un segmento di quanti siano gli infiniti numeri naturali. Per dirla un po’ più tecnicamente, l’infinito continuo trascende, e va al di là, del semplice numerabile”.

Ramon era esterrefatto. Ma come, in un segmento ci sono infinitamente più punti di quanti siano i numeri, tutti i numeri naturali? La testa girava un poco. Difficile era entrare nel paradiso di Cantor… Si ricordò che già Leibniz, nella “Dissertatio de arte combinatoria”, ricorda come per Cardano vi fossero più tipi di infinito. Scoramento, da un lato, ma, dall’altro, poteva ben dire a se stesso… “il naufragar m’è dolce in questo mare”.

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Note bio:
Maurizio Matteuzzi, insegna Filosofia del linguaggio, Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005). Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia.

Maurizio Matteuzzi