L’arcivernice: La concretezza del sapere (quindicesima puntata)

Qualcuno ricorderà che la finestra di Ramon era molto alta. Si potevano vedere le cime degli alberi e il cielo, ma non il mondo sottostante, come il brulichio degli uomini. Metafora del destino, forse, dell’obbligo di guardare sempre in alto, dove il transeunte non era rappresentabile.

Così era la filosofia, un “theorao”, un “guardare tutto intorno da sopra”? A questa idea Ramon si ribellò: e del resto bastava uno sgabello, bastava alzarsi un po’, per vedere il giardino, spelacchiato dall’inverno, e qualche raro essere umano che proseguiva su una via segnata da chissà quali obiettivi. Ma proprio questo era il punto: porsi problemi filosofici, i massimi dei problemi, prescindeva dal concreto, forse?

Non così la pensava Ramon.

L’astrazione è una fuga verso il cielo, certo, è la selezione sempre più accorta sulla rilevanza dei predicati. Così per passare dal cane reale a quello della biologia si devono mettere in parentesi tanti predicati, che il cane abbia fame, o che sia a pelo duro. Mentre il cane che scodinzola davanti a me, che esiste, ha la sua fame, la sua precisa altezza, il suo pelo, con la sua consistenza e il suo colore. Che farsene dei glaciali predicati rilevanti, del freddo della loro assenza di vita, di oggetti in definitiva morti, non più individui ma universali, terrei e cerulei sui lettini dell’obitorio dell’essere?

Bisognava pure ritrovare la via del ritorno al concreto, a questo mondo, al vissuto, dove le gote possono diventare di nuovo rosate, nella “Erlebnis” che dà corpo agli scheletri, perché non si muovano per sempre nel mondo dei morti. Ma come tornare al concreto, dove trovare il coraggio di gettarsi senza paracadute dalle altezze proibitive della suprema astrazione, giù giù verso il cane che ha un colore, che ha il corpo caldo, rispetto al cane della biologia, che un colore non ha, ma ne ha una gamma, un’altezza non ha, perché ne ha un intervallo (da… a…)?

È questo il compito del senso comune, l’oggetto dell’empiria, o della scienza se si vuole: nel darsi con i suoi predicati, necessari, scientifici, come resistente, prepotentemente vivo, avverare o falsificare ogni suo predicato.

Allora l’albero, di cui dall’alta finestra di Ramon si vedevano solo i rami spogliati dall’inverno, ecco che si dava come “resistente”, come portatore di infiniti predicati. E quell’albero, quell’olmo secolare, non si dava come solo biologico, né come solo chimico, né solo fisico, né solo geometrico. Era un albero vivo, con i suoi prepotenti attributi, con i suoi virgulti e le promesse delle sue prossime gemme.

Qui Ramon pensò alla “intionalität”, alla direzionalità del pensiero. Pensiero onnipotente quanto alla intenzionalità, Ramon poteva dirigere la sua intenzionalità all’albero, o al suo cane, mentre il cane della biologia non scodinzola, o alla moka che stava brontolando per segnalare che il caffè era pronto. Ma l’albero poteva darsi come chimico senza essere fisico, biologico, senza essere geometrico? Evidentemente no. Il qui e ora, e la resistenza dei suoi attributi, parlavano chiaro.

Ramon comprese che, al di là di ogni fuga astrattiva, si doveva tornare al concreto, dopo il viaggio edenico nelle ontologie regionali: il qui e ora era impellente: “E come il vento odo stormir fra queste piante, io quello infinito silenzio a queste voce vo comparando, e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e il suon di lei”; ma qui siamo, ci siamo dentro…

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Note bio:
Maurizio Matteuzzi, insegna Filosofia del linguaggio, Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005). Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia.

Maurizio Matteuzzi