L’età ingrata di Malony

Siamo in una città nel nord della Francia, nell’ufficio di una giudice (un’impeccabile Catherine Deneuve), seria, ma comprensiva: deve decidere sull’affido di un minore di 6 anni, Malony. Una giovane mamma, la signora Ferrando (Sara Forestier), con in braccio un infante, super-eccitata, dalla lacrima facile, implora il giudice quasi gridando: “Signor giudice non ce la faccio più a tenerlo, mi fa impazzire, ora lo vede tranquillo e buono ma non è così, è terribile! La prego, lo metta in un istituto!”. La donna indica un bambino biondo, mite, che gioca con il Lego nell’ufficio del giudice, per niente turbato dalle grida della madre: appunto, Malony. Tra il giudice dagli occhi buoni e il bambino dallo sguardo tranquillo dovrà nascere qualcosa.

Nel taglio successivo, un’auto fa manovre folli in un piazzale; a bordo, un adolescente biondo in compagnia di due coetanee: Malony è cresciuto. Ruba auto, non va a scuola, non ascolta una madre sempre in minigonna e immatura, alla ricerca dell’uomo ideale. Malony è di fronte al Giudice dei Minori, stesso ufficio. “Sei stato qui tanti anni fa” lo saluta la donna. Malony ovviamente non si ricorda, è proprio cambiato: sguardo strafottente e pronto alla sfida, nega le sue bravate, è come “posseduto” dalla sua rabbia. È evidente che l’aggressività del quindicenne è un portato psichico chiamato a colmare un vuoto d’affetto: gli manca un padre che non ha mai conosciuto, una madre che non ha tempo per amarlo, un fratellino che vorrebbe amare ma non sa come fare. Quando lo si contraddice picchia tutti, e spacca ogni cosa.

Condotto in una scuola, per tentare l’inserimento, con tanto di mamma e educatore al suo fianco, di fronte alla preside, sembra accettare l’inserimento. Quest’ultima, dopo aver letto il suo “curriculum” di reati e risse nei vari Istituti, si permette una battuta: “Non ho personale di polizia per controllarti, quindi devi stare buono”. Malony, la prende come un’offesa, esplode, batte i pugni sulla scrivania si alza e, gridando, si agita: la preside, terrorizzata, è impietrita. Niente scuola pubblica, si torna all’Istituto.

I mesi passano e un nuovo educatore gli viene affidato, il tranquillo Yann (un intenso Benoit Maginel). Malony fa un passo avanti verso la maturazione e l’autocontrollo, ma due indietro, rappresentati da evasioni e liti. Una docente, intanto, gli insegna a scrivere e lui, a fatica, accetta il duro impegno, alternando scatti d’ira e fughe. Dall’aula nel cortile, ecc. Ma la paziente prof, con dolcezza e decisione, insiste, e Malony arriverà a comporre delle frasi. La donna ha una figlia, Tess (la delicata Diana Roussel), che un giorno la viene a trovare. Malony e Tess si guardano; lui, in fondo, è un timido. Si cercano, quasi vergognandosi, poi, alla prima occasione in cui sono soli, Malony, brutalmente, apre i suoi pantaloni e le chiede: “Sai fare i …?”. Lei timida e delicata, fa no con la testa e quasi piange. Ma la forza dell’amore le sta crescendo dentro: si alza e lo bacia sulle labbra, dolcemente. Malony è spiazzato, reagisce allontanando la ragazza e quasi fuggendo … il finto scudo del duro, dentro di lui, si sta incrinando. Tess lo porterà verso l’amore. Ma il percorso sarà lungo.

Altri mesi. Malony dovrà ritornare più volte in Istituto, perfino in prigione, poiché deluderà il giudice ogni volta che gli sarà concessa fiducia. La sua maturità passerà anche attraverso la metamorfosi psicologica di due personaggi, figure analitiche sostitutive: la giudice sarà una “mamma” e Yann, che non riesce ad avere un figlio (e forse per questo abbandonato dalla moglie), un “padre”. Contemporaneamente, la madre di Malony è “superata”, nel percorso verso la maturità, dal ragazzo, ormai diciassettenne: quando si incontreranno di nuovo nel sottofinale, la donna si accoccolerà sul ventre di Malony, invertendo i ruoli.

“Con la testa in alto” (La tête haute, 2015), della quarantottenne Emmanuelle Bercot (già attrice), è costruito su un procedere narrativo secco, sincopato, con tagli ellittici efficaci, e con la presenza di almeno tre finti finali. La struttura narrativa aperta rinforza una spina dorsale pedagogica (e psico- antropologica) non ingenua, a tratti sperimentale, interessante per chi lavora nella scuola italiana, al fine di confrontare soluzioni che il sistema d’oltralpe offre in particolari contesti di formazione (BES).

Malony (il superbo non professionista Rod Paradot) è un Antoine Doinel (vi ricordate I 400 colpi?) del terzo millennio. Bercot lo fascia e lo fa esplodere continuamente, come una fisarmonica slava, dentro una regia tellurica, a metà tra i fratelli Dardenne, Ken Loach e Emir Kusturica, alternando piani medi (vedi le liti, nel cortile dell’Istituto, tra i ragazzi) e primi piani/ppp negli scontri diretti tra caratteri (inizialmente) opposti (tra Yann e Malony; tra il giudice e la madre e Malony; tra madre e figlio; tra i due adolescenti innamorati; ecc.). Il finale, con il ragazzo che esce dall’ospedale con suo figlio in braccio (di più non possiamo raccontare), in un finto lungo piano-sequenza (saldato tra tre carrelli a seguire), è l’uscita dal tunnel: Malony sta continuando la corsa di Antoine verso il mare, verso la vita.

Giudizio: Da non perdere.

(Consigliato per il triennio delle superiori. Particolarmente utile per il percorso di Scienze Umane)

Eusebio Ciccotti