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Test discutibili per l’ammissione al TFA

Pubblicato il: 03/09/2012 18:18:37 -


Che ratio nella stesura dei quiz per l’ammissione ai tirocini formativi attivi? Un commento a partire dai quesiti sulla classe di concorso di “Filosofia, Psicologia e Scienze dell’educazione”.
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L’accertamento (assessment) diretto di conoscenze e competenze attraverso prove oggettive standardizzate, basate su metodologie scientificamente verificate, è prassi consolidata in molti paesi sia al fine di contribuire alla costruzione di modelli atti a valutare, in termini di esiti, i sistemi formativi e le politiche educative, sia a rendere meno pletoriche le liste di aspiranti a prove di selezione del personale, di studenti da ammettere a concorsi, a corsi universitari ecc. Non si tratta sicuramente di prove perfette, ma di strumenti che aiutano a orientare la scelta di chi è responsabile di processi di valutazione per rendere meno arbitrarie le selezioni; quando i sistemi si confrontano con i grandi numeri, i criteri di scelta non possono essere affidati alla buona volontà di innumerevoli commissioni, che non possono non seguire criteri difficilmente comparabili e quindi poco equi.

Questo valga come premessa, perché le figuracce che il MIUR continua a produrre ogni volta che presenta un test, rischiano di fare un cattivo servizio proprio a chi potrebbe difendersi in modo onorevole in una competizione equa. Non mi sono mai divertita di fronte alle raccolte di stupidari, che pure, in una carriera lunga nella scuola e nell’università, un docente accumula nel corso della vita professionale, quindi seguo un diverso approccio per spiegarmi come possa essere successo che quei test siano stai licenziati dal ministero e proposti ai candidati. Non voglio prendere in considerazione la giustificazione che, pure qualcuno, spero senza riflettere molto, ha dato dal ministero: “la commissione era stata nominata dalla Gelmini”; domanda: “ma nessuno ci ha buttato un occhio sensato?” nessuno si è posto una semplice domanda: cosa deve sapere una persona che ha fatto un corso universitario di discipline filosofiche, psicologiche e di scienza dell’educazione, per fruire con profitto di una specializzazione orientata all’insegnamento di queste discipline? Con quale tipologia di problemi, di testi e di documenti deve dimostrare di avere familiarità per poter migliorare nel corso della sua carriera? Per dirla in soldoni “ a quale syllabus queste prove possono fare ragionevolmente riferimento?”. Per syllabus intendo un elenco di argomenti che, un corso finalizzato al conseguimento di un titolo di studio, riconosciuto e riconoscibile, dovrebbe sviluppare; un syllabus descrive infatti argomenti e temi, non è un curricolo, che ha piuttosto un valore prescrittivo e risponde alla responsabilità delle scelte delle singole istituzioni accademiche, e serve a dare coerenza al lavoro di diverse scuole di pensiero. Giusta quindi sarebbe stata la scelta di affidare alle università il compito di produrre i test, invitandole a ragionare, prima e in modo sistematico, sul loro lavoro. Tra l’altro sarebbe stato possibile costruire in questo modo un profilo della competenza “attesa” dalle università per confrontare gli esiti dei percorsi formativi. Del resto operare in questo modo avrebbe garantito un gioco pulito agli aspiranti corsisti. Mi limito a riflettere sui test della classe “Filosofia, Psicologia e Scienze dell’educazione” e mi chiedo: se una studentessa o uno studente si fossero voluti preparare al test, e ci sono molti studenti che hanno l’abitudine di prendere le cose sul serio (ancora), cosa avrebbe dovuto fare? Qui nasce il problema serio. Le 50 domande di contenuto disciplinare per il 30% circa sono riferite alla filosofia e denotano uno spiccato interesse per il pensiero tardo antico e per il personalismo spiritualistico (meglio se francese) con qualche spericolata incursione verso Cacciari, Rorty e Lou Salomé (sic) e verso una semplicistica formula “ anarchismo metodologico”, con buona pace di Feyerabend che, forse, risultava un po’ troppo complicato quando parlava di “Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge” (1975) e di Epistemological anarchism.

Taccio dell’arbitrarietà di scelte relative a psicologia, psicoanalisi, sociologia e… chi più ne ha più ne metta e mi metto nei panni di un/una giovane studioso/a e preciso/a che, di fronte alla domanda “nel 1960 istituì il centro di studi cognitivi”, si trova a dover scegliere tra J. Bruner, J. Piaget, J. Dewey, C.W. Washburne. Il/la malcapitato/a ha studiato che nel 1960 ad Harvard il centro ebbe due fondatori: G. Miller, che non era proprio l’ultimo venuto, e J. Bruner, il quesito gli chiede un solo nome, è uno scherzetto o un tranello per verificare se comunque ha riconosciuto il metodo del “non sta a guardà il capello”, seguito di solito dai peggiori studenti di fronte a una semplice richiesta di rigore? Alla fine due item che dovrebbero saggiare la capacità di comprensione del testo. Ci si aspetterebbe un testo denso e bello (Platone, Kant, Rousseau, Dewey, Visalberghi) dopo 50 domande il candidato avrà pur diritto di respirare!

Il testo 1 consta di 12 righe tratte da Algirdas Julien Greimas e Joseph Courtés, “Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio”, edizione del 1979 (strano, visto che nel 2007 Paolo Fabbri ne ha curato una edizione scientificamente aggiornata); le domande sono 5, la prima francamente poco comprensibile, la seconda è un semplice match, la terza e la quarta chiedono di individuare due riferimenti e la quinta la comprensione di una espressione limitativa (“non possono che riguardare” che significa “riguardano solo”).

Il testo 2 consta di 20 righe (articolo di R. Culotta tratto da Artedossier n. 246, manca il titolo dell’articolo che parla di L. Riefenstahl). Anche qui la prima domanda è un match, la seconda è un trabocchetto, che costringe a fare una inferenza al negativo sui rapporti tra L. Riefenstahl e R. Rossellini, la terza e la quarta chiedono di individuare alcune informazioni e l’ultima presenta un elenco di risposte che potrebbero essere tutte accettabili.

Due osservazioni in conclusione: a) non scomodiamo argomentazioni, pur valide, contro l’uso dei test, perché qui sarebbero fuori luogo e rischierebbero di portare acqua al mulino di chi sogna valutazioni empatiche e prove scarsamente eque; b) mandiamo qualcuno a vedere come sono fatti i posti dove si producono batterie di test, come si verificano e si standardizzano e poi coinvolgiamo le università perché forniscano informazioni un po’ più mirate sui contenuti e gli obiettivi dei loro corsi.

Vittoria Gallina

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