Sulla valutazione del personale nella scuola

Le suggestioni e gli inviti sono numerosi. La valutazione ormai costituisce una sorta di “parola ronzio” che anima ogni episodio di confronto e discussione sulla scuola e suoi destini; qualcuno indica il contenuto del decreto “milleproroghe” come strumento di risistemazione “epocale” del sistema di valutazione della nostra scuola fondato sul triplice ancoraggio di INVALSI, ANSAS, ispettori (almeno dieci anni di esitante e contraddittoria “transizione” risolti con disinvoltura istituzionale attraverso una decretazione di urgenza, e quale decretazione!!); per ultimo, su queste pagine, l’amico Tiriticco propone una riflessione che tende a proporre criteri e salvaguardie nella valutazione dei docenti.

Provo a cimentarmi con qualche considerazione unicamente guidata dalla esigenza di chiarezza su categorie interpretative e costrutti concettuali variamente distribuiti in tante suggestioni.

Quando genericamente si parla di valutazione ci si deve riferire a una matrice complessa: quella risultante dalla correlazione tra “cosa valutare” nella scuola (sinteticamente: i risultati dell’apprendimento, l’organizzazione, il personale); “chi” deve/può valutare; “perché” valutare; “come” valutare (protocolli, metodologie, suddivise in due grandi “campi” paradigmatici: auto ed etero valutazione).

Nelle celle della matrice si possono agevolmente rintracciare i capitoli essenziali” delle metodologie, degli strumenti, dei protocolli relativi, applicabili ai diversi oggetti (il “cosa” valutare). Lascio ai lettori la fatica di ricostruire, al di là delle etichette, il contenuto complesso di ogni cella.

Mi limito solamente a qualche precisazione, espressa in modo sinteticamente assertivo.

1. Non c’è protocollo autovalutativo (sono numerosissime le esperienze) che non necessiti di un “occhio esterno” sia pure in veste di “amico critico”. È la garanzia di controllare l’inevitabile autoreferenzialità.
2. Non c’è protocollo di valutazione esterna che non abbia necessità del consenso e della collaborazione di chi viene valutato. È la garanzia che l’opposizione esplicita e, forse ancor più, l’opportunismo “cosmetico”, non mandino “fuori bersaglio” anche il protocollo più “scientifico” di etero valutazione.
3. La valutazione evoca sempre i fantasmi della paura, della colpa e della fuga. Li rintracciamo sia nelle adesioni entusiaste (pochi “valutateci!”) sia nelle negazioni pregiudiziali (tanti “impossibile valutare il lavoro scolastico”) sia nelle disponibilità condizionate (tanti “si… ma…” e “interessati” a rimandare). Negarlo significa lasciare operare tali fantasmi nell’oscurità. Disattivarli significa portarli alla luce, “guardarli in faccia e parlarci”.
4. L’accettabilità sociale della valutazione viene migliorata se la matrice del “cosa valutare” è esplorata interamente e simultaneamente: tutti vengono valutati, compresi i valutatori.
5. Nel caso specifico della valutazione del personale deve essere chiaro che non si valutano le persone, ma le “persone in contesto organizzativo”. Confondere i due livelli è uno degli errori di osservazione classici e un buon valutatore deve esserne avvertito.
6. Un aforisma molto in uso nella valutazione in contesto aziendale recita pressappoco: “non c’è impresa evoluta che non riconosca la necessità di dotarsi di un sistema di valutazione; ma non c’è impresa che non si lamenti dei difetti del sistema in uso”. Tradotto in positivo: la valutazione è campo di ricerca e di permanente miglioramento dei protocolli. Non esiste un sistema “chiavi in mano” applicabile ovunque.

Provo a proporre alcuni concetti, rielaborati nella cultura valutativa di esperienza di impresa e riferiti alla “valutazione del personale”, cercando di applicarli a quella “impresa particolare” che è la scuola. Mi limito ovviamente all’essenziale, ma sono ovviamente disponibile a ogni approfondimento successivo.

IL “PROFILO DI RUOLO”

La chiave di volta di ogni modello valutativo del personale è la definizione del “profilo di ruolo” su cui si applica il protocollo valutativo. Ciò significa, in ogni impresa, la definizione esplicita di una declaratoria di mansioni, compiti, competenze che sono ascritte a ciascuna posizione lavorativa, e che in genere trova elementare e sintetico riassunto nei dispositivi contrattuali.

Nella Pubblica Amministrazione italiana, e dunque anche nella scuola, tale definizione ha invece il carattere del dispositivo normativo, è cioè oggetto di legge (per ragioni storiche che qui è impossibile ripercorrere, basti ricordare che ciò non sarebbe inevitabile. È cioè frutto di scelte politiche di fondo. Vi sono Paesi che non hanno un “Diritto amministrativo” distinto dalla legge comune e le cui amministrazioni pubbliche funzionano benissimo). Acquista cioè il crisma di affermazioni valide “erga ommnes” e con carattere di universalità: il profilo di ruolo deve contenere tutto il possibile. A scorrere alcuni “profili di ruolo” per esempio estratti dai bandi di concorso per le assunzioni dei docenti o dei dirigenti scolastici, non ci si può trattenere dal considerarne alcuni paradossi: se davvero un dirigente scolastico dovesse avere le caratteristiche previste normativamente sarebbe un mostro. Spesso si chiedono al medesimo ruolo (alla medesima persona) capacità di pronta risoluzione dei problemi e costanza operativa-procedurale; insomma di essere “un’aquila e un cavallo contemporaneamente”. Ma Pegaso è evidentemente un mito, e un mito non può essere il riferimento per una sensata metodologia valutativa.

Si noti che anche l’amico Tiriticco, nel contributo citato, parte, per definire il “ruolo” del docente dalle affermazioni “normative” che contengono “tutto ciò che non può non essere detto” (professionismo individuale, collegialità di esercizio, competenza disciplinare, competenze pluridisciplinari ecc. ecc.). In una impresa, al di là di declaratorie di ruolo generiche, riassuntive e pattizie, il “profilo di ruolo” ha una definizione operativa e contestualizzata: “il profilo di ruolo è ciò che una organizzazione si aspetta da una persona occupata nella medesima e specifica organizzazione”.

Le conseguenze della semantica diversa che acquista il termine “profilo di ruolo” nella Pubblica amministrazione è che “qualunque” protocollo valutativo, a meno che incontri il mitico Pegaso, ha un oggettivo limite di efficacia: produce necessariamente esiti generici e poco significativi, schematici e “formalistici”. Se si vuole un esempio si consideri il fatto che per i Dirigenti della Pubblica Amministrazione, in applicazione del sistema di valutazione in atto da circa dieci anni, nel caso di quelli del Ministero della Pubblica Istruzione, dei tre livelli di merito previsti il terzo (il più basso) è regolarmente vuoto. Sono tutti “bravissimi” con tanto di certificazione sottoscritta dai loro “superiori”.

La valutazione (a parte gli opportunismi) è mandata “fuori bersaglio” ab origine dal carattere stesso formalistico e astratto del “profilo di ruolo”. Recentemente Brunetta ha “disposto” che tutte e tre le fasce debbano essere riempite. Dal punto di vista scientifico appare assai singolare che la “gausssiana” rappresentativa della distribuzione delle valutazioni, invece di un risultato ex post, confortante sulla validità delle stesse, sia un ex ante “normativo”. Ma la scientificità dei protocolli appare come l’ultima preoccupazione “politica”.

Per tornare a noi: chiunque si accinga a formulare un progetto di valutazione del personale della scuola dovrebbe, come primo passo, e pur tenendo conto di declaratorie di tipo generale, misurarsi con quel significato concreto e contestualizzato del “profilo di ruolo”: cosa si aspetta l’organizzazione (quella organizzazione) dal suo dipendente (docente, non docente, dirigente che sia)? Ovviamente sono proibite le risposte all purpose del tipo: elevare il livello culturale della scuola italiana (ci mancherebbe il contrario…). Si richiedono risposte contestualizzate e “situate”.

IL CARATTERE DELL’ORGANIZZAZIONE

In termini paradigmatici si distinguono due modelli estremi di valutazione: a parametri fissi e a parametri variabili.

Il primo modello si applica appropriatamente a organizzazioni (e a posizioni di lavoro) caratterizzate da elevata proceduralità (sequenze di lavoro costanti e ripetute, secondo regole esplicitate) e, in genere, da basso livello di autonomia operativa e conseguentemente di responsabilità circa gli esiti. In tale modello si valutano “i comportamenti” e la loro coerenza con le procedure definite. Un esempio tipico di tale “forma organizzativa” è proprio la Pubblica Amministrazione, dove le procedure lavorative sono formalizzate normativamente e divise “per competenze” (e si pensi alla semantica, diversa da quella di impresa, del termine “competenza” applicato agli uffici pubblici: non cosa “so fare”, ma cosa è “lecito e dunque obbligatorio io faccia”). Naturalmente anche nell’impresa esistono processi di lavoro con tale caratteristica; ma, appunto, in genere caratterizzano posizioni subalterne e con basso livello di autonomia professionale.

Il secondo modello valutativo (parametri variabili) è costituito dalla valutazione obiettivi-risultati. (Gli obiettivi di una impresa sono infatti “variabili”). Dunque è caratteristico delle organizzazioni improntate al cosiddetto MBO (Management By Objectives), e delle mansioni con elevati contenuti di autonomia operativa, elevata professionalità e corrispondente responsabilità circa il rapporto tra obiettivi assegnati e risultati. In generale le organizzazioni concrete raramente sono assimilabili radicalmente ai due paradigmi indicati: più spesso sono un meticciamento tra i due modelli, sia per quanto attiene ai concreti processi di lavoro, sia, di conseguenza, alle articolazioni interne del personale occupato. I modelli di valutazione utilizzati, di conseguenza, declinano variamente gli strumenti propri di ciascun paradigma. Ciò che non si può assolutamente fare è invece utilizzare un modello appropriato per una forma organizzativa su una organizzazione concreta appartenente all’altro paradigma, o prevalentemente costruita su paradigma contrario. In costanza di parametri organizzativi tradizionali della Pubblica Amministrazione italiana (proceduralismo formalizzato), per esempio, è improprio utilizzare modelli valutativi validati per organizzazioni MBO. La “valutazione per obiettivi-risultati” che viene proposta in tante dichiarazioni (vedi Brunetta) non sortisce (sortirà) effetti significativi per la contraddizione fondamentale tra paradigma valutativo e carattere dell’organizzazione. L’esempio fatto in precedenza sulla valutazione dei Dirigenti pubblici è un “fatto” misurabile da anni: ciascuno se fa ciò che gli “compete” è bravissimo; l’eccezione è costituita da vere e proprie inadempienze.

Il modello obiettivi-risultati affascina, soprattutto per la sua intrinseca semplicità. Ma si offre anche, e forse di conseguenza, alla mistificazione. Il modello “confina” infatti con le procedure del controllo (che è cosa diversa dalla valutazione). E non a caso le proposte relative a valutazione dei risultati, nella Pubblica Amministrazione dialogano direttamente con quelle di carattere “disciplinare”, inquinando la consapevolezza del significato della valutazione e il confronto collettivo dal quale dovrebbe scaturire il consenso necessario a far funzionare qualunque sistema di valutazione.

Dunque il secondo passo che dovrebbe esplorare chiunque volesse davvero costruire un appropriato sistema di valutazione per la scuola dovrebbe essere quello di rispondere alla domanda: che tipo di organizzazione è/dovrebbe essere la scuola?

È del tutto evidente che la risposta a tale domanda è attraversata dalla questione della autonomia e della responsabilità operativa della scuola, ma anche dal carattere operativo dei processi nei quali si organizza il lavoro scolastico.

Per esempio: come si combina un lavoro necessariamente sequenziale e con alto grado di costanza delle procedure (quale non può non essere il curricolo: anzi il suo valore sta in gran parte nella sequenza e nel suo grado di ripetitività) con la declinazione di “obiettivi” o con “progetti finalizzati”?

Per esempio: come si contestualizza nella “organizzazione concreta” (qui, ora, in questo contesto operativo, in questo contesto socio economico, con queste risorse finanziarie, organizzative e di personale) la combinazione dei due modelli organizzativi?

Non si elabora un modello di valutazione sensato e pertinente al personale della scuola se non si risponde a tali domande. Peggio si fa se, comprimendo di fatto per altre vie l’autonomia, si predichi la rilevanza della valutazione per risultati.

LA DIMENSIONE COLLETTIVA DEL LAVORO

Anche nel caso della valutazione della collegialità del lavoro scolastico se ci si ferma al dettato normativo se ne ricavano indicazioni che assumono semplice carattere esortativo e, al peggio, una collegialità che diventa una sorta di “feticcio”. La dimensione collettiva del lavoro di una organizzazione ha invece carattere “situato” e concreto. Va verificata, valutata, misurata nel processo di lavoro concreto di “quella” organizzazione concreta. Altrimenti non è oggetto di valutazione, ma al massimo si misura di “congruenza” di processi rispetto al dettato normativo (dunque oggetto di apprezzamento di legittimità o al peggio di tracciatura di “confini” operativi).

Solo qualche esempio circa la scarsa significatività delle affermazioni generali sul carattere collettivo del lavoro.

Una Accademia, un reggimento, un club, una squadra di calcio, rappresentano altrettanti esempi di “organizzazioni collettive”. Si tratta evidentemente solo di “etichette” paradigmatiche. Ma ciascuna di esse ha procedure di ingresso, meccanismi di riproduzione, condizioni operative, “vocazioni” e mission completamente diverse. Non solo, ma poiché ogni organizzazione concreta vive nello spazio e nel tempo, può modellare il suo funzionamento collettivo interpretando variamente – nel tempo e nello spazio – i paradigmi citati. Le organizzazioni, come gli organismi viventi, cambiano nel tempo.

Una organizzazione scolastica fortemente impegnata in una innovazione autonoma può per esempio assomigliare a un club quanto a legami interni, spirito volontario, coesione, “gratuità” dell’impegno che si ripaga da sé, modalità di reclutamento dei “nuovi” (ma quanto può durare nel tempo con tali caratteristiche?). Una organizzazione impegnata in una fase storica di forte innovazione istituzionale tende invece ad assumere paradigmi propri di una squadra di calcio: vincere (fare goal, raggiungere l’obiettivo istituzionale) diventa preoccupazione dominante. Una organizzazione “stressata” da bulimia innovativa (ce ne sono…) è al contrario probabile che necessiti di qualche cura “riproduttiva” e cooptante (come una accademia) piuttosto che ulteriori iniezioni di innovazione. E così via. Alla valutazione toccherebbe apprezzare se le diverse interpretazioni sono congruenti e produttive.

Il richiamo alla “collegialità” come dimensione istituzionale lascia invece senza “oggetto” (se non formalisticamente definito) qualunque protocollo valutativo. La “norma”, infatti, non può che declinare insieme categorie “legittime”, ma non necessariamente coerenti tra loro (perché ispirate da esigenze diverse da quella della efficienza/efficacia organizzativa) come la libertà di insegnamento e la sua declinazione individuale, l’autonomia dell’organizzazione, la collegialità operativa ecc.

Ciò che non può fare la “norma” è prevedere entro di sé le combinazioni effettive, concrete, di tali valori. Ed è questo invece l’oggetto della valutazione, non la legittimità dei modelli, che appartiene al controllo, ma la loro operatività concreta rispetto ai compiti generali di sistema.

Ci si trova molte volte, in sede di valutazione di personale, a individuare il ruolo fondamentale svolto da una persona entro un collettivo, e di formulare valutazioni più che positive su tale ruolo, cui non corrispondevano declaratorie di mansioni e di funzioni svolte, e neppure riconoscimenti formali di ruolo.

La “gruppalità” cui lo stesso amico Tiriticco rimanda è cosa che si misura sul campo e con strumentazione che non risiede (o non tanto) in schede e declaratorie quanto in capacità diagnostiche e in esercizio inferenziale dell’osservatore. (Che non può che essere, nel caso di eterovalutazione, un “valutatore professionale”).

IL RATING

Nascondersi che ogni valutazione, specie di carattere etero, produce rating, graduatorie, significa rimanere prigionieri dei fantasmi citati in apertura. Il problema è la finalità del rating.

Nella valutazione del personale in impresa, l’esito valutativo produce conseguenze nell’uso di strumenti “premiali” nel mercato del lavoro interno, sia di carattere retributivo, sia di sviluppi di carriera, sia di benefit vari. Ma, anche in tale caso, non vi sono “automatismi” economici ma accorte misure organizzative coerenti con il carattere dell’organizzazione stessa e delle articolazioni di personale. Per esempio è probabile che il “premio di produzione” sia più che apprezzato, e si riveli efficace, nelle posizioni di lavoro meno caratterizzate da autonomia e responsabilità, mentre è possibile che i riconoscimenti di tipo direttamente economico sulle posizioni di maggiore autonomia operativa e di responsabilità (e di retribuzioni già più elevate) siano al contrario foriere di deformazioni e inquinamenti e di opportunismi pericolosi per l’impresa stessa (gli esempi non mancano). Meglio, in certi casi, gli incentivi di carattere non direttamente economico. Ciò significa che i gradi di libertà nella decisione vanno completamente esplorati, in rapporto ai caratteri concreti dell’organizzazzione stessa e delle posizioni di lavoro.

Ma, per tornare alla nostra argomentazione, cosa è più appropriato a quella forma organizzativa specifica che è la scuola? Quale significato reale finiscono per acquisire certi cortocircuiti tra valutazione e incentivi stipendiali? Superficialità e insufficienza “scientifica” o mistificazione? Se le argomentazioni precedenti sono sensate che dire di ipotesi di istituti premiali ad personam diretti al “migliore”? Il tacere è bello, in proposito. Però rimane la domanda fondamentale: chi ha paura e perché del rating? Bisogna dare parole e argomenti, per non lasciare operare i fantasmi e finire, per questa via, per lasciare via libera ai “decostruttori”.

Ho proposto solo alcuni elementi di riflessione, ma mi si permetta l’autobiografia: da più di dieci anni sono stato impegnato in tutti i tentativi “sperimentali” di costruire modelli di valutazione del personale della scuola, in particolare per Dirigenti scolastici. Da altrettanto tempo vado tentando di chiarire categorie, concetti, modelli e alternative valutative, per contribuire professionalmente a definire protocolli e ipotesi di sperimentazione, con “disciplina e onore” rispetto a tutti i ministeri che in quest’arco di tempo si sono succeduti (di diverso orientamento). Ultimo in ordine di tempo un progetto di valutazione dei Dirigenti Scolastici messo a punto con l’INVALSI e consegnato al Ministro (questo) corredato da tempistica, costi ecc. Ignorato senza alcuna motivazione e bypassato da progetti che non si realizzeranno per loro stessa parzialità ed evanescenza scientifica (è un eufemismo), proporzionali al grande clamore mediatico con il quale sono stati “lanciati” (e all’altrettanto grande clamore indignato che hanno suscitato nel popolo della scuola).

Stando ai fantasmi richiamati in introduzione: chi ha davvero paura della valutazione? E quali “alleanze improprie” tra i paurosi?

Franco De Anna