Sul referendum di Bologna per la scuola dell’infanzia

Colgo l’occasione fornitami da “Tuttoscuola” che è intervenuta di recente, anche con toni politico-partitici, attorno alla questione del referendum sul contributo del Comune alle scuole gestite da enti non profit per l’infanzia, previsto a Bologna il prossimo 26 maggio, per riflettere sulla situazione generale in cui versa la scuola italiana in un momento politico così delicato, con accenti di respiro educativo, in coerenza con l’indirizzo della nostra rivista.

La necessità e l’urgenza di misure rilevanti ed efficaci, non solo di natura economico-politica, ma anche culturale-educativa, sono sollecitate dalle rilevazioni e dalle statistiche che periodicamente attestano i mediocri rendimenti dei nostri studenti nel confronto con i coetanei europei e non solo.

Si può parlare di una vera e propria “questione sociale della scuola” di fronte ai dati che registrano allarmanti criticità, come: l’aumento della dispersione e dell’esclusione scolastiche; la diminuzione ormai decennale degli investimenti nell’istruzione dei discenti e nella formazione dei docenti; la mancanza di un dibattito ampio e profondo a livello istituzionale e politico sulle ricerche ed esperienze più innovative avanzate nel campo dell’education.

In questo senso, l’agenda politico-scolastica è chiamata a far fronte ad alcune priorità, a cominciare proprio dal reperimento di risorse finanziarie, certe e stabili nel tempo. Contemporaneamente, però, è chiamata anche ad avviare un radicale cambiamento dell’intero impianto formativo italiano, attraverso l’affermazione di una nuova cultura educativa fondata sulla centralità dell’apprendimento, sull’ammodernamento dei curricoli o della professionalità docente.

Mi chiedo se il dibattito sul referendum di Bologna, che in questo periodo sta animando le pagine di quotidiani e riviste, oltre che di siti e blog, stia interpretando la sostanza del reale rinnovamento di cui necessita la nostra scuola e quindi stia centrando il vero obiettivo da sollecitare in ambito politico e istituzionale, o non sia piuttosto un modo, magari ideologico, che finisce per distogliere l’attenzione sui concreti problemi della realtà scolastica italiana.

Anziché promuovere lo sforzo unitario di tutte le forze scolastiche per realizzare il cambiamento, in parte già evidente nelle straordinarie iniziative di innovazione metodologica e sperimentazione didattica, promosse da docenti e dirigenti all’interno delle scuole, certa politica rischia di allontanarsi dalla vita vera della scuola, abdicando a una coraggiosa azione progressista di rinnovamento del complessivo assetto dell’istruzione, condannando così l’Italia a restare in coda alle classifiche in Europa nell’attività educativa.

Da questo punto di vista, allora, mi permetto di obiettare sulla valenza scolastico-educativa di questo referendum, particolarmente evidente nella situazione di Bologna, dove la condizione della scuola dell’infanzia è davvero unica in Italia.
Riporto alcuni dati.

Grazie al sistema integrato fra scuole comunali, statali e paritarie, le scuole dell’infanzia della “dotta” città coprono il 98,4% della domanda, un vero record al confronto col resto del paese, all’avanguardia del dibattito internazionale, che cerca di orientare le scelte politiche verso l’implementazione complessiva di questo livello scolastico.

Il Rapporto OCSE dal titolo “Does participation in pre-primary education translate into better learning outcomes at school?” dimostra l’importanza di frequentare la scuola dell’infanzia, sia per la rilevanza qualificante nella performance dei test PISA sia come importante fattore di equità sociale, specialmente se l’offerta formativa erogata si rivela di qualità. È questo il vero obiettivo progressista: favorire l’estensione e il miglioramento della qualità in tutto il sistema.

Se si analizza la struttura dell’offerta formativa nelle scuole dell’infanzia di Bologna si constata che il 59,27% dei posti appartiene alle scuole comunali; il 22,80% a quelle gestite da enti non profit e solo il 17,93% alle scuole statali.

Se poi si guarda ai dati di spesa, dei circa 38 milioni di euro all’anno investiti dal comune nella scuola per l’infanzia, 6.900 sono per ogni alunno della scuola comunale, 700 per ogni alunno della scuola statale e 600 per ogni alunno della scuola paritaria.

Infine, la discussione nell’ultimo mese ha messo in luce che il cambiamento del sistema della convenzione fra comune e paritarie porterebbe a una drastica diminuzione dei posti disponibili (alcune migliaia), a fronte di un aumento di sole alcune centinaia di unità nella scuola comunale: dunque un aumento dei costi, una riduzione dell’offerta e quindi della frequenza del numero di bambini.

A ben vedere, allora, si corre il rischio di perdere il servizio scolastico e con esso l’uguaglianza sostanziale delle opportunità: questa sì è una violazione del diritto costituzionale all’istruzione. Perché il più grande e innovativo principio della nostra Costituzione, come mirabilmente sottolineato da Sabino Cassese nel commentario alla Costituzione, è proprio la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale (art. 3, capoverso 2).

In effetti, il referendum di Bologna pone l’accento lontano dalla questione sociale della scuola, confondendo il concetto di statuale con quello di pubblico, con la conseguente rinuncia a sollecitare e a battersi per estendere al massimo il servizio e per qualificarlo sempre più.
Va chiesto allo Stato di spendere adeguatamente per aumentare l’offerta formativa a Bologna e in tutto il Paese.
Questa è la vera battaglia politica.

Va detto che le scuole dell’infanzia, con le loro insegnanti, sono state in Italia protagoniste nel processo di trasformazione dagli ex asili-parcheggio a eccellenti sedi di attività educativa. La cultura promotrice del referendum non inquadra la richiesta della contemporaneità e del dettato costituzionale.

Gli articoli 3, 5, 33, 34 e 117 costituiscono la cornice costituzionale della legge 62/2000, che è appunto legge fortemente laica di attuazione costituzionale. Il sistema integrato favorisce l’uguaglianza sostanziale e la partecipazione. L’art. 117 novellato impone e tutela l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Ora, è proprio l’autonomia che apre la strada a una profonda trasformazione del sistema educativo. Molte scuole e molti docenti hanno già iniziato a cambiare la scuola, con cultura e iniziative straordinarie, a fronte della disattenzione e noncuranza della politica e delle ideologie.

Noi di Education 2.0 sappiamo che questo cambiamento dell’impianto educativo verso la learning centered education sta crescendo: da tempo lo registriamo, lo dibattiamo, lo approfondiamo dall’interno della scuola. Siamo convinti che il cambiamento viene dal basso, dalla forza innovativa che si sta affermando in molte scuole. È questo che va ora imposto all’agenda politica, al nuovo governo e al Parlamento.

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Immagine in testata di Photl (licenza free to share)

Luigi Berlinguer