Storia delle riforme scolastiche: non buttare il bambino con l’acqua sporca

Tra le novità dell’esame di maturità 2019, delle quali stiamo diventando consapevoli in questa fase immediatamente  successiva alla prima attuazione, forse vale la pena di citare anche ciò che è stato abolito del vecchio esame. La novità più evidente,  di cui però si è parlato poco, è stata l’abolizione della terza prova. Ne ho scritto nel mio blog personale in tono semiserio simulando un’orazione funebre, qui vorrei sviluppare una breve considerazione sui significati politici di questa scelta.

Innanzitutto va osservato che la paternità di questa ulteriore modifica dell’Esame di Stato è incerta: il decreto origina dalla riforma della Legge 207 varata  dal centrosinistra ma la definizione e la promulgazione del decreto attuativo appartiene al Governo in carica e al suo ministro. Difficile discernere con chiarezza la responsabilità della scelta, possiamo dire che nessuno ha fatto grandi battaglie per difendere o affossare la terza prova né il centrosinistra che l’aveva istituita con la riforma Berlingueriana del ’97 né il centrodestra ha perso tempo per giustificarne l’abolizione: era un residuato lasciato deperire nel tempo sia dai docenti che non ne avevano compiutamente colto il senso e che la vedevano come un appesantimento inefficace di una procedura già gravosa nel gran caldo dell’estate italica, sia dalla pedagogia accademica sempre più proiettata verso l’accertamento delle competenze e della valutazione autentica.

Era in realtà già fallito il progetto originario ovvero quello di realizzare un esame finale che fosse nel suo complesso coerente con le finalità dell’educazione scolastica, che fosse equo agli occhi degli studenti, che fosse affidabile nel soppesare i rendimenti effettivi indipendentemente dagli umori delle commissioni, dalle condizioni e dai condizionamenti del contesto socio-economico. Rispetto a questi obiettivi della riforma Berlinguer, l’introduzione della terza prova fu il tentativo di arricchire il set delle prove complesse da sempre utilizzate, prime e seconda prova ed orale, di una prova scritta strutturata che potesse allargare l’accertamento delle conoscenze e delle abilità sviluppate nelle tante discipline del curricolo frequentato e che fosse il più possibile indipendente dai correttori e da valutazioni eccessivamente olistiche.

Queste esigenze nascevano dalle ricerche del gruppo IEA, guidato da Aldo Visalberghi, che all’inizio degli anni 70 aveva mostrato come le differenze territoriali di rendimento, emergenti da tutte le indagini realizzate con test oggettivi, non trovavano riscontro nelle medie delle valutazioni assegnate dalle commissioni di maturità che agiscono autonomamente su tutto il territorio.

In pratica i voti di maturità non erano, e non sono, equivalenti per studenti provenienti da regioni diverse del paese anche se sono utilizzati nelle stesso concorso o per iscriversi alla stessa università. La terza prova, lasciata però alla responsabilità delle singole commissioni, fu una soluzione ponte di compromesso che doveva dare il tempo al costituendo sistema di valutazione nazionale di preparare prove oggettive nazionali da somministrare durante gli esami di Stato e da usare come fattore correttivo dei punteggi assegnati localmente dai docenti e dalle commissioni per ottenere punteggi maggiormente confrontabili a livello territoriale.

All’epoca della riforma del ’97 si intendeva anche promuovere attraverso terze prove pluridisciplinari una visione più integrata della preparazione degli studenti. I voluminosi Repertori delle Terze prove diffusi gratuitamente alle scuole dall’allora CEDE di Villa Falconieri, che stava trasformandosi in INVALSI,  cercarono di diffondere esempi realistici di terze prove preparate da docenti esperti in servizio nei vari indirizzi di studio. Il modello proposto nei Repertori era costituito da un testo di riferimento dal quale originava  una serie di quesiti di formato misto, aperti, chiusi, problemi, tutti afferenti a un’area problematica o a un contesto pluridisciplinare. L’ONES (Osservatorio Nazionale sugli Esami di Stato), non solo ebbe parte attiva preparando e diffondendo i Repertori, ma investì molte risorse per raccogliere la massa enorme di prove che le singole commissioni avevano prodotto durante gli esami. Ciò accadde per i tre anni iniziali dell’attuazione della  legge di riforma. Il lavoro di raccolta del materiale prodotto della commissioni venne tutto successivamente digitalizzato e restituito alle scuole in appositi CD rom di facile consultazione. Ciò consentiva di condividere ma anche di socializzare e controllare il lavorio che  le commissioni avevano realizzato  nelle singole scuole. Queste linee di intervento, fortemente volute ed ispirate dell’allora presidente del CEDE-INVALSI Benedetto Vertecchi, immaginavano un protagonismo attivo degli insegnanti nello sviluppo di una cultura della valutazione scolastica più moderna e più matura ma furono bruscamente fermate dall’alternanza politica di quei tempi. Possiamo dire che la lenta fine  della terza prova è stata anche il frutto del tira e molla di opposte tendenze, maggiore e minore rigore, oggettività versus prove complesse, conoscenze versus competenze, autonomia versus centralismo, Invalsi versus ispettorato, etc

Per onestà va aggiunto che la riforma attuale ha probabilmente recepito e conservato un aspetto della terza prova che involontariamente e contraddittoriamente l’aveva caratterizzata. La terza prova era diventata nei fatti una prova interna, quella che di più si ritagliava sulla preparazione effettiva della classe ed è per questo che l’idea di sostituirla con una prova INVALSI oggettiva trovò forti resistenze. E’ anche per questo, forse, che la sua abolizione è stata compensata con il maggior peso riservato ai punteggi assegnati attraverso il curricolo scolastico, cioè attraverso la valutazione interna.

Ripensando a questa vicenda che si chiude con la riforma di questi giorni, aggiungerei che la debolezza della riforma del ’97 risiede anche nell’idea un po’ ingenua che una riforma legislativa possa provocare significativi cambiamenti nei comportamenti di vaste popolazioni di attori. Non si può stabilire per legge che i docenti dovevano valutare meglio magari usando bene il testing oggettivo. Il pregiudizio contro forme nuove di accertamento del profitto è radicato e diffuso, i sistemi complessi tendono a trovare un equilibrio stabile nei punti di minimo sforzo, i cambiamenti positivi sono possibili se sono alimentati da prospettive allettanti per la maggioranza degli attori, il miglioramento si alimenta con la condivisione di ideali forti. Purtroppo siamo in un momento in cui i fattori del cambiamento sono basati soprattutto sulle paure, quella del futuro, quella della natura fuori controllo, quella  degli altri uomini diversi da noi.

Per questo nuove stagioni di riformismo nelle scuola dovranno essere ripensate e opportunamente pianificate forse con modalità più radicali.

Raimondo Bolletta