Se 18 vi sembran pochi… (parte seconda)

Dai lavori della Commissione (nominata dal ministro Profumo col compito di “studiare” il problema sulla durata dei cicli scolastici e di formulare proposte) sono scaturite alcune affermazioni di valore e alcune proposte che avevano come riferimento sia l’analisi del sistema scolastico attuale, sia per quanto riguarda i mutamenti e la dinamica delle nuove generazioni, sia per il rapporto tra sistema formativo e politiche del lavoro e per la relazione tra formazione e cittadinanza.
Come ovvio in questa sede non posso che limitarmi a elencarne alcuni punti. Il committente di quei lavori, se lo vorrà o lo riterrà opportuno, potrà rendere pubblico quel documento (una significativa sintesi è rintracciabile nell’ultimo numero della “Rivista dell’Istruzione” n. 3-2013, sul quale intervengono molti membri di quel gruppo di lavoro).

a. Per migliorare l’efficacia complessiva dell’istruzione pubblica, migliorare gli esiti dell’intero percorso scolastico è necessario potenziare e sviluppare la scuola per l’infanzia.
La ricerca internazionale mostra esaurientemente la correlazione positiva tra esiti finali del ciclo d’istruzione e presenza di un sistema 0-6 anni che costruisca formazione e socializzazione precoce (non necessariamente “scuola” in senso stretto).
Quando (1971) si pose per la prima volta la questione dell’uscita dal sistema scolastico a 18 anni, si indicò la via dell’anticipo scolare a 5 anni di età. Ma ricordo che allora la scuola per l’infanzia sostanzialmente non esisteva nel nostro sistema. La sua creazione (1969) e la sua successiva affermazione – più lenta di quanto era auspicabile – ha modificato radicalmente i termini della questione.
Anche sotto il profilo della “significazione” sociale (vedi richiamo parte prima) andrebbe attentamente valutata la distribuzione attuale dell’anticipo scolare: scarti più che significativi di tale distribuzione nelle diverse realtà del Paese dimostrano che l’anticipo viene utilizzato massicciamene laddove è meno sviluppata quantitativamente e qualitativamente la scuola dell’infanzia. Per esempio è interessante fare un confronto fra i dati del Trentino o della Lombardia con quelli della Campania o della Sicilia. In queste ultime regioni le percentuali d’anticipi sono superiori di oltre 10 punti.
L’anticipo è vissuto e interpretato socialmente, in modo prevalente, come una “seconda scelta” residuale e obbligata in assenza della scuola per l’infanzia.
Personalmente ritengo che ciò falsifichi ampiamente, anche al di là delle loro intenzioni, le ragioni di chi pensa allo strumento dell’anticipo scolare (5 anni di età) come risposta alla necessità del fine ciclo a 18 anni (per non lasciare alcuna malizia politica inespressa: per qualcuno meglio risparmiare su qualche migliaio di maestre di scuola materna che sulla lobby dei docenti della superiore. NdA).

b. Un punto debole, critico e sostanziale del nostro sistema è come si organizza, si assiste e si accompagna il passaggio alla secondarietà (che è qualcosa di diverso, di più preciso e di più significativo che affermare che “il punto debole è la scuola media”, come dice la Fondazione Agnelli, cogliendo solo parte del problema, in modo superficiale e ingiusto).
Passaggio che implica diversi aspetti nello sviluppo del soggetto:
1) un approccio al sapere che, superando definitivamente il mero approccio esperienziale, mette il soggetto a confronto con le “teorie” e con le “discipline”;
2) un passaggio che si misura con le “differenze ” di velocità e agibilità dei diversi saperi (per esempio noi sottovalutiamo sempre la precocità d’approccio al pensiero matematico);
3) il passaggio all’interrogazione e al pensiero sul proprio stesso sapere (l’autoepistemologia del soggetto).

Personalmente ritengo che questi tre “passaggi, e in particolare gli ultimi due, siano ampiamente connessi non solo con la dinamica soggettiva dello sviluppo dei singoli, ma anche con quello “spirito del tempo” che contrassegna passaggi antropologici di generazione (i giovani non sono mai sempre gli stessi e tale diversità si misura invece con le “permanenze” del sistema, che hanno spesso la dimensione della lunga durata. Oggi per esempio siamo di fronte a un mix fra precocità e rallentamenti che spesso ci preoccupa. Si vedano le problematiche del mondo “digitale”).
La debolezza e la criticità della “gestione della secondarietà” nel nostro sistema sono testimoniate sia dall’esperienza diretta sia dalle tante rilevazioni internazionali. I risultati della scuola primaria nelle comparazioni internazionali sono confrontabili con i migliori, quelli dei quindicenni precipitano in fondo alla scala.
Le dislocazioni odinamentali – elementare-media e media-superiore – costituiscono faglie spesso insormontabili rispetto allo sviluppo dei singoli. Non lo accompagnano, non lo promuovono, spesso non lo rispettano. Su tali dislocazioni prevalgono altre “continuità”: dalla classificazione del lavoro dei docenti, alla strutturazione di tempi e di spazi di formazione; dalle gerarchie implicite ed esplicite socialmente riconosciute, ai vincoli costituiti dagli istituti sul rapporto di lavoro dei docenti, fino ai “dettami” della sedicente “scienza curricolare”.
Ma è bene rammentare che segni di tale inadeguatezza nella gestione del passaggio alla secondarietà si riscontrano dentro la stessa scuola primaria, che pure ha risultati medi d’eccellenza. L’analisi differenziata mostra una flessione nel valore dei risultati di apprendimento già nel passaggio tra la quarta e la quinta classe della primaria (del resto è un’osservazione ricavata dall’esperienza diretta dei docenti più attenti).

c. La fenomenologia relativa alla secondaria superiore è varia e complessa.
La scure selettiva del primo biennio ha un peso sociale sul piano dell’effettivo esercizio del diritto allo studio, rispetto al quale spesso spendiamo recriminazioni o progetti di recupero che si limitano – spesso – ad “abbassare l’asticella”. Ma ha anche un peso economico rilevante, aumentando di circa un terzo la spesa effettiva rispetto a quella teorica.
Il passaggio “interno” alla maggiore età da parte dei diciottenni non è segnalato da niente: essi possono decidere chi governa il Paese, ma non possono scegliere neppure un insegnamento del proprio curricolo, un’attività volontaria, elettiva, complementare, ecc…
Il quinto anno di studio è in realtà decurtato e deformato dalla gravitazionalità dell’Esame di Stato. Da un certo mese in poi si smette di “studiare” e ci si misura semplicemente (o opportunisticamente) con la scadenza dell’Esame e i suoi ridotti contenuti.
E se cominciassimo ad abolire l’esame o a cambiarlo radicalmente?
Il rapporto con il “mondo che verrà” (lavoro, università ecc.) trova momenti solamente in alcune esperienze (stage ecc.), che riguardano quasi esclusivamente certi indirizzi e non a caso quelli ritenuti culturalmente meno qualificati (vedi il permanere del “primato” ideologico del liceo… non ostante le dichiarazioni d’equivalenza tra gli indirizzi).
Insomma, l’efficacia formativa e la produttività complessiva del quinquennio delle superiore è notevolmente mortificato dall’insieme di questa fenomenologia. E tutto ciò dà connotati, reali ed esperienziali, al problema del “fine ciclo a 18 anni”.

Qui termina il mio rammentare i contenuti del documento messo a punto dalla Commissione, al cui lavoro ho partecipato e contribuito.
Sulla base di quanto qui ricordato posso sintetizzare alcune conclusioni che sono, invece, opinioni personali, anche se alcune di esse figurano come proposte della Commissione stessa e fanno parte del documento consegnato al ministro.

1. A monte di tutto considero prioritaria la scelta di potenziamento e universalizzazione della scuola per l’infanzia (non sono d’accordo dunque con l’ipotesi anticipatoria).

2. A mio avviso occorre ristrutturare i cicli in un’architettura di tre segmenti quadriennali, o meglio: in un segmento di otto anni (oggi corrisponde anche fisicamente al ciclo comprensivo), la cui mission formativa fondamentale è quella d’articolare la formazione primaria con il passaggio alla secondarietà, rimescolando completamente le carte relativamente agli spazi e ai tempi di formazione, di classificazione e di distribuzione del lavoro docente (dunque non è il 5+3). E in un segmento quadriennale d’istruzione secondaria superiore, la cui mission formativa sia quella di dare corpo all’obbligo d’istruzione e d’esprimere il massimo di flessibilità per quanto attiene la formazione che si riconnette al futuro della fase terziaria (universitaria e non) e del lavoro (stage, apprendistato evoluto, alternanza, formazione adulta, ecc.).

3. Attenzione particolare (pedagogica, psicologica e individuale) agli snodi tra i cosiddetti “cicli” (in realtà i “passaggi” evolutivi più significativi).
Per tradurre con riferimenti alla realtà odierna: il passaggio tra l’ultimo anno dell’infanzia e il primo anno della primaria; il passaggio tra il quarto anno della primaria e della secondarizzazione; il passaggio tra l’obbligo e il post obbligo (dentro il quadriennio superiore).

4. Attenzione e consolidamento “ordinamentale” fino all’obbligo, concentrando dunque a quel livello le istanze d’omogeneità, d’uguaglianza e di confrontabilità (le risorse e l’indirizzo culturale: l’orizzonte è una “comprensive” decennale).
Massima flessibilità organizzativa e curricolare, invece, nel post obbligo, fino a superare la categoria stessa dell’ordinamento. In particolare valorizzare l’articolazione tra insegnamenti curricolari, complementari, elettivi e facoltativi, nei quali il soggetto in formazione “sceglie” e si misura (sbaglia anche, e si corregge, ma impara l’esercizio dell’autonomia) e in cui ogni scuola misura sensatamente l’autonomia curricolare e il rapporto con il contesto economico.

5. Organizzazione controllata e valutata delle iniziative a chiusura del ciclo secondario su un ventaglio d’opzioni tra loro comunicanti: lo stage formazione lavoro (per tutti anche per i liceali); l’alternanza scuola-lavoro (apprendistato, formazione professionale); formazione terziaria non universitaria.
Aggiungo: diffusione e incentivazione del servizio civile sia come esemplare coronamento della formazione alla cittadinanza, sia come esperienza professionale e formativa che introduce alla vita adulta, sia come “restituzione” dell’investimento sociale in istruzione di cui ciascuno ha personalmente usufruito.

6. Le risorse che si risparmiano nella riduzione a 12 anni del ciclo scolastico andrebbero ridistribuite nel sistema, seguendo le destinazioni implicite nell’elenco di “attenzioni” precedente. Naturalmente avendo ben presenti alcune precisazioni: mi riferisco a risorse economiche e di personale.
Vi è qui un’implicita ma forte istanza di riconversione e flessibilità nella gestione del personale che impegna con tutta evidenza sia il ciclo dell’obbligo (rigidità della classificazione del personale, gerarchie obsolete, differenziazioni degli istituti del rapporto di lavoro che non hanno più alcun fondamento e che ostacolano l’unità del ciclo di formazione, ma anche ogni articolazione interna funzionale allo sviluppo e non alla politica del personale).
Ma tale istanza vale anche per il post obbligo, quando si pensi alla necessità d’articolazione degli insegnamenti (obbligatori, complementari, opzionali e legati alla gestione della flessibilità curricolare a livello di scuola).

So di rischiare l’incomprensione se, in sintesi estrema, indico la necessità d’intervenire radicalmente sul “mercato del lavoro” dei docenti: quello “interno” all’organizzazione (e qui l’accenno è forse inedito) e quello “esterno” (ma sul “reclutamento scorrono fiumi di parole). Se si vuole se ne potrebbe discutere – specie per il primo aspetto – in termini specifici e analitici.

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Franco De Anna