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La scuola bene relazionale

Pubblicato il: 06/10/2011 18:12:52 -


Non saranno i tagli a far morire la scuola, anche se le sofferenze sono forti. Ma la scuola rischia di morire per mancanza di ossigeno culturale, di afflato educativo, di svalorizzazione sistematica di tutto ciò che riconduce alla cultura, al sapere, alla relazione educativa.
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C’è fermento nei licei, persino nei classici. E non mi riferisco solo alla legittima preoccupazione dei docenti classe di concorso A052 (latino e greco), preoccupati dagli effetti di una gestione confusa delle classi di concorso “atipiche” che rischia di metterli in difficoltà. Avanza ben altro. Ed è la migliore risposta a questo clima un po’ depresso e deprimente che si percepisce in una società civile quasi rassegnata a vedere il peggio di fronte a una crisi economica che di giorno in giorno, grazie anche alla qualità dei governanti, aggiorna il suo bollettino di sciagure. Questo clima, intendiamoci, colpisce tutti, ma nel liceo avanza una convinzione: il baratro sul quale siamo seduti non si chiama solo debito pubblico; è un baratro anche culturale ed etico che ha inquinato i pozzi del vivere civile, delle relazioni sociali, della politica. La relazione tra i due termini c’è, eccome; lo aveva dimostrato con chiarezza, non ultimo, lo studio della la Banca d’Italia del 2009. E il governatore Draghi più volte aveva ribadito il concetto. Invano.

Non saranno i tagli a far morire la scuola, anche se le sofferenze sono forti. Ma la scuola rischia di morire per mancanza di ossigeno culturale, di afflato educativo, di svalorizzazione sistematica di tutto ciò che riconduce alla cultura, al sapere, alla relazione educativa.

Ed è qui che i licei dicono no. Basta con il silenzio, Bisogna riprendersi la parola. Serve una nuova stagione della cultura umanistica. Il fallimento di questa economia non è solo un fallimento contabile. È il fallimento di una cultura economica che ha messo al centro la contabilità finanziaria, il primato dei grandi manager, delle banche che giocano d’azzardo. Non si tratta allora solo di aggiustare i conti ma di reagire a un modello sociale che davvero ci sta portando sul baratro, vantando il mito di una cultura tecnica e tecnologica che avrebbe cambiato il mondo e la felicità delle persone.

Nessun atteggiamento “luddista”, sia chiaro. Le nuove tecnologie, i nuovi linguaggi, sono opportunità che non possono andare perdute; ma ciò di cui abbiamo bisogno oggi è un “di più” di cultura umanistica che non vuol dire ritorno al passato ma bisogno di pensare il futuro, di avere un progetto di società e valori forti sui quali ricostruire un welfare sepolto dalla crisi del turbo capitalismo liberista.

E allora i docenti sono ripartiti da qui: riprendiamoci il senso più profondo di questo bene comune che è la scuola e che nessun provvedimento del Ministro di turno può cancellare. Ridiamo senso di bene relazionale a questa scuola. I curricoli, i tempi, le risorse: continuiamo a batterci per cambiarle, ma intanto diamo valore alle relazioni nella scuola. Lavoriamo sulle persone e non solo sulle strutture. Scoprendo allora che non sono le poche risorse finanziarie il solo nemico principale, ma le pigrizie, le lentezze, le chiusure che abbiamo introiettato nel corso di una deriva individualistica e autistica del fare scuola che ha prodotto danni, ai nostri studenti, ma anche profonde cicatrici tra i docenti.

Assumere la centralità della relazione educativa vuol dire lavorare sulle persone, anche su se stessi; vuol dire guardare alle competenze non come vincolo normativo o esigenza di modernizzazione in sé ma come progetto sulle persone che apprendono oggi in un contesto in cui non c’è rischio di povertà di informazione o di documentazione (un sapere importante e in gran parte fuori della scuola) ma in cui il vero rischio è non avere idee guida e strumenti solidi per gestire il mare grande della comunicazione e quella spinta di intelligenza creativa, divergente, che ci porta a guardare oltre gli schemi scritti da altri e oltre l’intelligenza binaria del computer.

Forse tornerà il tempo in cui buoni governanti capiranno che investire nella scuola è anche un bene economico, ma nell’attesa evitiamo la trappola che talvolta si materializza: “se questo è, farò lo stretto necessario”. Può sembrare l’ultima e più radicale protesta; l’angolo in cui rifugiarsi ed invece è, anche clinicamente, l’inizio del ciclo depressivo che ci può persino condurre al centro di salute mentale.

La nostra ricchezza è nelle relazioni possibili; che siano larghe, aperte, creative, ricche di emozioni e riflessioni. Senza questa ricchezza, l’autonomia è solo un disegno istituzionale un po’ logoro e rattoppato.

La scuola è quel luogo straordinario in cui le relazioni ritrovano il loro senso, fuori dalla mannaia economicista che le ha segate come romantiche scorie del tempo che fu. Oggi questa sottocultura economica non sa come fare a rimettere in sesto il mondo e si accorge che senza fiducia neppure l’economia può avere un futuro. Ma la fiducia non è una categoria dell’economia; è un bene relazionale, è parte di quel capitale sociale che rappresenta l’alternativa alla deriva del presente.

La scuola è un bel pezzo di quel capitale sociale: vediamo di esserne consapevoli e di iniziare a rivendicarlo con forza.

Dario Missaglia

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