Le due Italie della scuola

Il movimento riformatore nel sistema scolastico italiano non si è basato tanto sulla dialettica parlamentare quanto sul tentativo di conciliare diverse posizioni culturali e scuole pedagogiche attraverso “commissioni” pluraliste convocate presso la sede sempre un po’ingombrante del Ministero nazionale.

Discussioni che duravano anche anni producevano confronti ed elaborazioni che magari non riuscivano ad arrivare ad una nuova legislazione, ma a volte innescavano processi sperimentali, altre si traducevano in atti amministrativi; il tutto, però, aveva il merito di saggiare il punto più alto di condivisione e di far crescere la cultura istituzionale e professionale, animando il dibattito e la ricerca attorno alle nuove proposte. Un metodo che il CENSIS aveva definito i “sentieri dell’innovazione”, che al posto delle “strade della riforma” andava in basso, a toccare gli operatori e le comunità locali, cercando non di imporre il nuovo ma di portare alla luce le esigenze di cambiamento. Un modo per coinvolgere, far riflettere, aggiornare, progettare, che negli ultimi trenta quarant’anni ha sviluppato una decisiva consapevolezza del ruolo sociale della scuola facendo evolvere la partecipazione verso l’autonomia.

Un’improvvisa inversione di tendenza: ci si sarebbe aspettati una “nuova scuola”, cioè diversa da prima, mentre ci si è trovati di fronte la “buona scuola”, cioè l’ambizione di sapere cos’è meglio di prima; non si sono radunati esperti, ma solo consiglieri del principe, non c’è stata sperimentazione, ma consultazione online, non si prende la strada del confronto culturale bensì del dibattito parlamentare. Insomma si vorrebbe tornare alla “strada” politica, decisa democraticamente o quasi, che sa o crede di sapere quale sia il meglio per la scuola italiana.

Si riparte da un disegno di legge di iniziativa governativa, un percorso avventuroso come tutti di questo genere il cui impianto è abbastanza diverso dai precedenti, non interviene infatti sul “progetto educativo”, ma prevalentemente sulla dimensione organizzativa, che conferma sostanzialmente l’attuale quadro ordinamentale.

Tutto è riferito principalmente al movimento dei soggetti che operano nella scuola, alla loro formazione e valutazione, intervenendo a tratti sugli aspetti metodologici ma, per quanto riguarda gli obiettivi che gli alunni devono raggiungere, si tratta di un impianto conservatore, sull’onda di una vecchia maggioranza politica. Non c’è nemmeno da usare il “cacciavite”, intendendo con lo slogan adottato dal ministro Fioroni ricercare il miglioramento dell’esistente, senza provocare stravolgimenti.

Si parte in maniera un po’ insolita dal rilancio dell’edilizia scolastica. Scuole belle e sicure: annunci su cantieri e stanziamenti, perlopiù di governi precedenti; difficile dire cosa sia stato veramente ultimato e quale sia il flusso finanziario, se lo si osserva dal punto di vista dei Comuni. Anche la tanto annunciata anagrafe nazionale degli edifici ancora non si vede, ma i crolli sì.

Da qui la “bonifica” renziana, che ha collaudato anche un metodo per dare in pasto all’opinione pubblica quasi tutti i temi inerenti il settore. Davide Vecchi che per Chiare Lettere ha scritto una sorta di biografia del premier (2014) ha documentato lo stile dell’allora sindaco di Firenze: annuncio di obiettivi da realizzare in tempi precisi, che in gran parte resteranno sulla carta.

Sembra sostanzialmente un problema di governance che il ddl Aprea del centro destra voleva risolvere attraverso l’autonomia della scuola, con la costituzione di Fondazioni dal carattere privatistico, mentre nel ddl Giannini, sull’altra sponda politica, l’autonomia è mantenuta saldamente nelle mani della burocrazia ministeriale, che ha il suo presidio terminale nel dirigente scolastico, mentre in precedenza quest’ultimo era visto più come l’amministratore delegato di un’azienda.

Un’autonomia nella scuola piuttosto che della scuola, una strada quest’ultima già percorsa dai decreti applicativi delle leggi Bassanini (1997), che viene confermata nel “sistema delle autonomie territoriali” dai “documenti del lavoro del forum sulle politiche dell’istruzione del PD 2010-2012” e che è letta con preoccupazione nell’attuale disegno di legge dalla Conferenza delle Regioni (2015).

L’impianto Gelmini-Tremonti è sostanzialmente riconfermato, fatto salvo il potenziamento di qualcosa un po’ ovunque; le vere modifiche si possono rilevare nell’offerta formativa delle singole scuole, proclamate autonome, nei margini di flessibilità dei curricoli determinati e dell’organico d’istituto, comunque definito sulla scorta delle risorse economiche disponibili. Saranno comunque gli uffici scolastici regionali a valutare e ad approvare le proposte didattiche triennali delle scuole stesse.

L’elemento più significativo che viene introdotto è la sterzata decisa verso il mondo del lavoro, che inizia nel secondo ciclo con insegnamenti opzionali per arrivare fin dal secondo anno ai contratti di apprendistato. Il tutto supportato da interventi delle imprese sia negli stage per gli allievi, sia per l’allestimento di laboratori tecnologici territoriali.

Pur senza demonizzare i percorsi studio-lavoro, da inserire in tutti gli indirizzi scolastici – facendo però attenzione di evitare un precoce avviamento lavorativo e che la questione dell’intelligenza pratica non sia un pretesto per impartire un’istruzione inferiore – un’altra Italia ha presentato un progetto di legge di iniziativa popolare.
Una proposta giacente al senato, che aveva raccolto cento mila firme in 120 comitati popolari. Stili diversi anche di partecipazione.

Approfondimento

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Immagine in testata tratta da l’Occidentale

Gian Carlo Sacchi