La porta girevole

Da una parte si fanno progetti per migliorare l’integrazione, dall’altra per anticipare l’uscita verso il lavoro. La scuola “media” è diventata una porta girevole: chi entra e chi esce, più o meno nelle stesse condizioni. I dati sugli apprendimenti sono impietosi: mentre nella primaria si può individuare un “valore aggiunto”, dalla seconda alla quinta, nella media si regredisce, dalla prima alla terza.

Un segmento che si vuole continuare a chiamare intermedio, perché più significativo del nome attribuito di secondaria di primo grado, avendo perso oramai rilevanza il dibattito sulla “secondarietà”. Tale connotazione era uno dei pilastri del momento istitutivo, sia in termini sociologici – e cioè di aumentare la qualità formativa di “tutto il popolo italiano” – sia psicologici, per come l’apprendimento avrebbe dovuto affrontare operazioni più complesse per “l’età evolutiva”.

Un triennio che allora voleva potenziare la formazione generale per tutti, attraverso l’elevazione dell’obbligo scolastico, puntando sull’orientamento in crescita per ciascuno. Oggi c’è da chiedersi se l’obbligo sia ancora una conquista per il bene comune, dato che proprio nella scuola media è scoppiato il fenomeno delle ripetenze e degli abbandoni, e se il triennio isolato sia un periodo efficace per raggiungere i tanti “bisogni educativi speciali”.

Aumenta il numero di chi anagraficamente ha già assolto ai suoi obblighi e si trova ancora nei banchi della media; per costoro si cercano percorsi tortuosi al fine di conquistare un misero diploma, obbligatorio per entrare sempre più precocemente nella formazione professionale e nell’apprendistato. Si pensi inoltre all’aumento degli alunni stranieri ai quali si assegna spesso la classe precedente a quella di età e che quindi è facile ritrovare a 15 anni. Altri strumenti la scuola non ha per migliorare l’integrazione, a meno che non intervengano gli enti locali o altre forme di sovvenzionamento.

Insomma, le scuole medie aumentano le loro dimensioni per effetto delle misure sulla spending review, ma continuano ad essere vittime di confuse programmazioni territoriali che, di fatto, perdono il beneficio della continuità con gli apprendimenti conseguiti nella primaria e devono fronteggiare emergenze educative complesse, che spesso non consentono in così poco tempo di raggiungere risultati soddisfacenti.
Sul piano istituzionale sembra che la cosa non interessi più di tanto, in quanto da un lato sarebbe necessario realizzare gli istituti comprensivi come modello generalizzato del primo ciclo, come peraltro già prevedono le “indicazioni nazionali” per il curricolo (ma anche qui, per opportunismi vari degli enti locali e regionali, non si riesce a completare l’operazione), dall’altro, pur tenendo conto della situazione difficile, si preferisce agire a valle, forzando appunto l’orientamento verso la domanda proveniente del mondo del lavoro.

Cacciata dunque la massa dei disturbatori in una formazione professionale, che viene a svolgere più una funzione di contenimento del “disagio” che di sviluppo di utili competenze professionalizzanti, si vuole chiedere se quelli che restano sono adatti alla prosecuzione degli studi secondo la tradizione liceale alla quale ancora le nostre famiglie si rivolgono in modo massiccio. Il segmento intermedio è conteso tra il prima, dove si potrebbero realizzare progetti formativi più organici e distesi – con risultati più “secondari” se si compattano anche i segmenti precedenti – e il dopo, che va sempre più dividendosi tra l’aumento della massa liceale, per scelte dei genitori, e l’ingresso anticipato nel mondo del lavoro, che tende a raggruppare sempre di più gli alunni stranieri. Una situazione di questo genere, nella migliore delle ipotesi, rischia di tornare a dividere la società, interrompendo il tentativo di proseguire sulla linea dell’originaria scuola media, messo in atto con l’ulteriore innalzamento dell’obbligo di istruzione, che tuttavia si cerca di destabilizzare attraverso tante opportunità di fuga laterali. Forse il carattere unificante per le nuove generazioni non è più la scuola, ma sono i social network; e qui allora si apre tutto il discorso della qualità dell’offerta che non può certo reggersi sul debole fenomeno delle flipped classroom.

Se la scuola media assume sempre più la fisionomia dell’imbuto, la soluzione al problema non è praticare dei fori per consentire la fuoriuscita di chi è ritenuto incontenibile o, a sua volta, non si sente più motivato, ma occorre rimodulare il raccordo, in quanto le perdite in termini di formazione complessiva e di qualità degli apprendimenti sono ingenti e rischiano di compromettere il lavoro successivo: se non si rende più efficiente il percorso a questo livello è ben difficile recuperare dopo.

L’approfondimento su questo tema nel rapporto sulla ”buona scuola” sembra insufficiente e adagiato sugli effetti, e certo non potrà essere risolto da una spruzzatina di nuove materie o di docenti in aggiunta nell’organico di istituto.
Si può intervenire sul piano della struttura, riflettendo se sia opportuno diminuire di un anno le superiori ed aumentare le medie, con una divisione in due periodi come in Francia. Il doppio canale tedesco per noi rimane difficile, sia in entrata, date le scarse politiche per l’orientamento, sia con riguardo all’apprendistato, non pagato, in vista di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. I licei in Germania sono molto meno frequentati ed i due canali sono nettamente divisi: c’è da chiedersi se da noi non si ottenga il risultato opposto, cioè che la maggior parte della popolazione si stia “rifugiando” proprio nei licei.

Abbiamo rinunciato alla formazione generale per tutti: anni fa si parlava di “licealità diffusa”; o forse sappiamo, magari attraverso una valutazione per competenze, come raggiungere gli stessi risultati pur diversificando qualitativamente gli apprendimenti ?
Ma qui soccorre un’altra operazione che potrebbe essere valorizzata maggiormente proprio nella scuola media: la presenza del lavoro come elemento formativo per tutti. La letteratura didattica attorno agli anni sessanta e settanta del secolo scorso voleva che si unificasse la scuola del latino con quella del lavoro e non che quest’ultima diventasse una materia tecnologica teorica, come oggi avviene attorno ai problemi dell’informatica, dove il massimo di pratica la si fa attorno ai computer.
È sicuramente preferibile che il lavoro entri nella formazione piuttosto che anticipatamente la formazione venga realizzata in funzione del lavoro. A 14-15 anni si è già visto che l’apprendistato non funziona, in quanto, anche in presenza di lavoro, c’è un problema di adeguatezza complessiva del ragazzo all’ambiente lavorativo. Non siamo più ai tempi del garzone di bottega. Tutti ormai sono concordi nel ritenere che, benché la riforma Gelmini abbia riportato alla prima superiore la scelta degli indirizzi, almeno il primo anno deve mantenere carattere orientativo.

Il tempo scuola poi non può ricalcare il modello rigido del “tempo prolungato”, ma deve essere flessibile, proprio per favorire la “personalizzazione” della didattica; le materie sono troppe, meglio aree disciplinari nelle quali sia possibile gestire i saperi in maniera più integrata, pensando non ad “una testa ben piena”, ma ad “una testa ben fatta”; meno docenti, pluridisciplinari. Ad esempio l’area scientifico-tecnologica non potrebbe essere data ad un unico docente? Se ne guadagnerebbe in maggiore concentrazione sulla capacità di seguire il processo di apprendimento e di relazione tra i docenti stessi.
Una grossa spinta sull’innovazione didattica potrebbe portare al riefficientamento del sistema. È paradossale, infatti, che per la scuola primaria si insista nel rendere ancora più precoce l’apprendimento, perché aiutato dalle tecnologie, e nella media, nonostante lo stesso livello di resa tecnologica si vada indietro.

La scuola media è il vero nodo!

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Immagine in testata di Pixabay (free to share)

Gian Carlo Sacchi