Riflessioni su “La costituzione e il sistema di istruzione e formazione” di G. Fiori- di Claudio Salone

L’utilissimo contributo di Giuseppe Fiori (ricordo che, diversi anni fa, all’alba della mia carriera di preside, a chi me ne chiedeva spiegazione, dicevo, provocatoriamente, che il POF della scuola era la Costituzione della Repubblica Italiana) induce a molte riflessioni. In particolare sull’ “ibridismo istituzionale” in cui oggi si trova l’ordinamento statuale della Repubblica Italiana.

A un forestiero che ci chiedesse se l’attuazione del principio costituzionale relativo alle autonomie locali (vedi art. 5 e art. 114) ci abbia condotto alla costruzione di uno Stato federale, non potremmo che rispondere con un “ni”, in quanto, accanto a evidenti e anche robusti elementi di federalismo, convive un non mai domo spirito centralistico (la riforma costituzionale del 2016, come giustamente ricorda lo stesso Fiori, poi bocciata dal referendum, prevedeva un ritorno al centralismo nella potestà legislativa relativa a sanità e scuola).

Tale situazione ha condotto e conduce a equivoci e fraintendimenti.

Un esempio tra i tanti: la confusione che spesso si fa tra decentramento e autonomia, considerati sinonimi.

Uno stato centrale può decentrare in periferia alcuni suoi organi, ma il flusso delle decisioni resta comunque e sempre top-down.

Uno stato federale e autonomistico non decentra (gli Uffici Scolastici Regionali sono un tipico esempio di ibridismo istituzionale), ma induce un governo dal basso (bottom–up), all’interno del quale lo Stato centrale si fa più leggero (vedi invece la mancata riforma dei ministeri), detta i LEP, opera da regolatore, da garante dell’unità nazionale, in una logica tipica del principio di sussidiarietà.

E che dire poi dell’istruzione professionale, con i suoi “due canali” (l’unico doppio canale davvero esistente nella scuola italiana!), uno regionale, di solito considerato di serie B e uno statale, saldamente determinato e amministrato dal centro?

Dove è finita la legislazione esclusiva regionale sulla scuola (art. 117 novellato)? Si percepisce solo una pallida eco della struttura federale tedesca, dove i Laender governano davvero tutta l’istituzione scolastica, in piena autonomia – come, del resto, pallidissima eco della Berufschule germanica è l’Alternanza Scuola Lavoro introdotta dalla riforma renziana della Buona Scuola.

E l’autonomia scolastica, ha mai ricevuto le risorse necessarie perché si attuasse davvero? Si sono mai seriamente finanziate e messe a sistema le reti di scuole, che, in un’ottica autonomistica “dal basso”, dovevano costituire il livello intermedio forte tra governo regionale e singolo istituto?

Tenere i piedi in due scarpe, cambiare tutto, ma nulla in sostanza è una nostra specialità, lo sappiamo.

Finora le risorse dell’intelligenza, presenti, checché se ne dica, in gran copia nella scuola, come giustamente sottolinea Fiori, hanno ovviato al deficit di sistema. Quanto potrà durare?

I dati “macro” delineano una generale situazione di declino. Le cifre dell’OECD parlano chiaro: l’Italia è tra le ultime nazioni del mondo sviluppato per investimenti nel settore dell’istruzione e della ricerca (4% del PIL, contro quasi il 5% della Germania, che, in cifre assolute, si traduce in 65 mrd circa contro 130 mrd circa), la dispersione scolastica resta al di sopra del benchmark di Lisbona 2020, come pure il numero di laureati (le iscrizioni all’università tendono a decrescere) e, quel che è più grave, l’Italia è il Paese con la maggiore varianza nei dati medi, con il sud sempre più lontano dai risultati del nord, in palese violazione del principio costituzionale dell’art. 3.

Sembra che ci si continui a muovere senza una “visione”, come si usa dire, in un’ottica meramente emergenziale. Così la “Buona Scuola”, non aveva forse il suo vero scopo nella necessità di sanare urgentemente lo scandaloso precariato italiano più volte sanzionato con salatissime multe dal tribunali europei (vedi c. 132) e non già in un disegno sistemico meditato e approfondito? E che dire del “potenziamento”, trasformatosi in un modo surrettizio di assorbire gli esuberi e di ridurre le supplenze, con coperture spesso a scapito degli specifici insegnamenti curricolari?

Un ultimo esempio: la riforma dell’esame di stato, rimandata (e non è un caso) all’a.s. 2018-2019, di cui non si comprende né la logica, né gli intendimenti. “Confinata” al capo III del D. Lvo. 62/17, in essa si registrano come novità:

– il vistoso depotenziamento delle prove d’esame rispetto al curricolo scolastico, a cui vanno 40 punti/100 (a pensar male, gli istituti paritari non dovrebbero esserne scontenti).

– la riduzione delle prove scritte, che passano da tre a due;

– l’inserimento nel colloquio di una “relazione” sull’ASL;

– l’inserimento delle prove INVALSI (art. 19, c.1): Le studentesse e gli studenti iscritti all’ultimo anno di scuola secondaria di secondo grado sostengono prove a carattere nazionale, computer based, [e ti pareva!] predisposte dall’INVALSI, volte a verificare i livelli di apprendimento conseguiti in italiano, matematica e inglese. Nessuna traccia del peso da dare a queste prove, né del rapporto con le altre. Lasciate senza calendario e paracadutate nella “normale” didattica curricolare, con cui possono non avere alcun rapporto progettuale, esse si sono spesso rivelate come un dannoso invito al teach to test.  

Dov’è il senso “costituzionale” di tutto ciò? Nel definitivo annacquamento di un esame diventato pressoché inutile (99,6% di promozioni) e ormai estraneo ai suoi compiti originari (art. 33, c. 5)?

Mi piacerebbe che l’interessante e meditato articolo di Giuseppe Fiori servisse a riannodare il filo di un ragionamento serio e non meramente retorico sulla scuola e la sua ineludibile dimensione costituzionale.

Claudio Salone