Quattro anni per la scuola superiore? – di Gian Carlo Sacchi

La storia delle riforme scolastiche in Italia evidenzia che ogni volta che si è introdotto qualcosa di nuovo non si è eliminato quasi nulla del vecchio, all’insegna della nostra tradizione che deve essere tramandata alle nuove generazioni. Nella realizzazione pratica, però, non c’è mai stata una trasformazione profonda dell’impianto culturale e organizzativo, ed anche se sulla carta erano previsti rilevanti cambiamenti nella prassi didattica prevale la routine. Le ragioni vanno ricercate soprattutto nella cultura professionale dei docenti, i quali, spesso nell’incertezza, attingono alla loro preparazione remota e considerando talvolta la debolezza dell’innovazione, dopo un po’ di tempo sulle ceneri del nuovo, diffusosi peraltro a macchia di leopardo, risorge la vecchia impostazione, portando con se tutte le precedenti criticità.

Sono parecchi anni che la nostra scuola è ad un bivio: la politica attraverso le norme gestisce ancora l’intero sistema scolastico a livello nazionale e la didattica non ha sufficiente autonomia per decidere come organizzarsi di fronte ai cambiamenti ed alle diverse domande dei territori. Ad ogni cambio di governo, si resta in balìa di equilibri che mutano ed ancor prima di verificare la riuscita dell’ultima modifica se ne introducono altre senza preventive verifiche sul campo, si alimentano così le polemiche, ma di fatto non ci si muove in attesa della prossima.
E’ inutile dire che dum Roma e consulitur…. i cambiamenti sul piano sociale, economico, tecnologico, avvengono rapidamente, mettendo alcune scuole in modo a volte casuale all’inseguimento, lasciando però l’intero sistema in ritardo, i tempi di risposta scorrono velocemente e i provvedimenti vengono spesso dimenticati.

In questa situazione affrontiamo la conclusione della scuola superiore a 18 anni.

In campo per ora ci sono iniziative di pochi istituti, con il ricorso alla sperimentazione nazionale per decreto il ministero cerca di indirizzare preventivamente le eventuali ulteriori richieste. Il dibattito sull’evoluzione del secondo ciclo è sempre aperto, ma è la prima volta che si pensa ad una sua contrazione; i cinque anni sono sempre stati l’elemento di punta del nostro sistema. Ma siamo sicuri che per finire a 18 anni si debba incidere solo sull’ultimo segmento senza riconsiderare l’intera struttura? Si sa, ad esempio, che c’è una grande sete di anticipo nella primaria, mentre aumentano le difficoltà di successo nella media, che di secondario, secondo le tradizionali modalità di intendere lo sviluppo dell’apprendimento, ha sempre meno. Nel primo caso però è intervenuto un decreto della Buona scuola che definisce il segmento 1-6 anni e nel secondo si è tentato di compattare gli istituti comprensivi, ma senza decisioni definitive in tal senso il primo ciclo è unito sulla carta ma non nella realtà, così come un eventuale inizio dell’obbligo al quinto anno non vede la scuola dell’infanzia presente in maniera adeguata sull’intero territorio nazionale, a meno che non si voglia iniziare la primaria a questa età.
Accanto al secondo ciclo poi si sta sviluppando, con un crescendo di iscritti, il canale dell’istruzione e formazione professionale governato dalle regioni, che può fornire non solo una qualifica triennale, per un rapido inserimento nel mondo del lavoro, ma anche un diploma al quarto anno, con il quale si può accedere ad un percorso terziario di uno o due anni anche in provenienza dalle aziende. Un canale che sull’esempio di quello tedesco vuole coprire le varie esigenze di professionalità con una maggiore aderenza alla situazione locale, anche al fine di contenere l’abbandono scolastico. Nel momento in cui sembrano prendere piede i sistemi regionali quadriennali si ha motivo di credere che questa offerta diverrà fortemente competitiva nei confronti del percorso statale, anche universitario, in favore di un’istruzione superiore non accademica ma utile per l’occupazione.
Tutto finisce a 18 anni, il “diritto-dovere”, che ha sostituito di fatto l’obbligo di istruzione, indica questa età come il traguardo per una qualifica di secondo grado. Con la maggiore età dunque si dovrebbe cambiare status anche dal punto di vista scolastico; si tratta di aderire meglio agli standard europei, senza contare che le scuole superiori italiane all’estero sono già di quattro anni se è così nel Paese in cui operano e questa esperienza ha ottenuto buoni risultati agli esami conclusivi in base al nostro ordinamento.
Le scuole che si sono mosse in questa direzione sono perlopiù i licei che hanno potenziato in maggioranza le lingue straniere ed i rapporti interculturali, su modelli già in atto nel nostro panorama istituzionale, come quello europeo presente nei Conviti Nazionali, internazionale in base alle intese stipulate con altri Paesi per il reciproco riconoscimento delle certificazioni e della comunicazione proposto dal ministero agli istituti paritari. Solo in due casi si è valorizzato l’indirizzo economico.
Diplomare in quattro anni tuttavia non ha mai voluto dire disinvestire sul quinto, per migliorare il collegamento con l’Università e gli Istituti Tecnici Superiori, anche per quanto riguarda possibili crediti, con l’Europa pensando a diffondere l’ERASMUS anche a quel livello, concentrare magari gran parte dell’alternanza con le imprese e favorire le eccellenze.
Nel percorso quadriennale non saranno sottratti i contenuti indicati per gli attuali quinquenni o non avverranno decurtazioni di organico; l’anno che cala viene recuperato in gran parte da quelli precedenti: da 27 o 32 ore settimanali si passa a 35 e più.

E’ per questo che il Consiglio di Stato ha dichiarato legittimo il quadriennio, perché ci troviamo di fronte ad un cambiamento che lascia tutto come prima e per quanto riguarda gli apprendimenti essi possono essere consolidati con un anno di anticipo.

L’innovazione dovrà essere perlopiù didattica in senso generale, non essendoci disposizioni specifiche per tale modifica: l’uso delle tecnologie, il CLIL, l’interdisciplinarità con la flessibilità dei curricoli e dei gruppi, attività laboratoriali, la ricerca dei nuclei fondanti delle discipline e delle competenze trasversali, l’alternanza scuola-lavoro, che magari potrebbe essere fatta tutta al quinto insieme ad un servizio civile universale. Non si tratta dunque di abbassare la qualità del percorso e di offuscare l’identità dell’indirizzo. Un’eventuale revisione di tutto l’impianto, sia sul piano dei saperi e dei metodi, che guardino ad esempio alla contemporaneità o a competenze legate ad ambienti di apprendimento diversi da quelli scolastici, sui quali si stanno cimentando altri Paesi, per noi è un’altra storia. Per ora ci si limiterà ad agire sulla struttura.
Rispetto al curricolo vigente le scuole hanno una flessibilità pari a quella già concessa per l’autonomia, il 20% massimo sottratto alle discipline previste, da utilizzare o per il potenziamento delle competenze generali o per le opzionalità necessarie all’adattamento degli indirizzi ai territori, come voluto dalla normativa vigente. I progetti sperimentali dovranno sostanzialmente impegnarsi alla rimodulazione dei piani di studio e del calendario scolastico. In base al decreto ministeriale la richiesta potrà essere fatta per una sola prima classe per ogni istituto, liceo o tecnico.
Una novità viene introdotta, ma senza nulla distruggere di quello che c’è ed il rischio è di avere un curricolo compresso destinato a funzionare in senso cumulativo, provocando così ulteriore fatica e demotivazione; l’occasione invece è quella di rimodulare, come si è detto, sia in senso quantitativo, ma anche qualitativo, i piani di studio, perché di nuovo un aumento di ore settimanali non ponga problemi di sostenibilità dello stesso.
In quest’ottica c’è modo di considerare anche un’altra proposta, l’aumento dell’obbligo scolastico fino a 18 anni. Un intervento che ha già impegnato un lungo dibattito, risolto in parte con il predetto diritto-dovere, che però ha perso di interesse anche la dove è consolidato da anni; non è infatti l’obbligo giuridico a frequentare di cui si parla, ma quello politico a garantire il servizio, pur articolato, che in tal modo arriva a dare organicità e stabilità all’intero sistema, rendendolo visibile e credibile anche oltre i confini dell’Italia.

Gian Carlo Sacchi