L’8 marzo, per continuare la riflessione 

La ricorrenza dell’8 marzo rischia di diventare un rituale stanco. 

Le ragioni sono diverse e riconducibili ad aspetti più generali come la diminuita partecipazione politica complessiva, la percezione di conquista di diritti che appaiono acquisiti una volta per tutte (anche se non è vero, come mostrano, ad esempio, le vicende della legge sull’aborto negli USA), l’accresciuta istruzione delle donne che conferisce loro una sensazione di maggiore sicurezza rispetto alle generazioni precedenti e così via.

Per evitare che il più diffuso disimpegno offuschi il significato di questa giornata è opportuno assumere una prospettiva generale che consideri il contributo che la riflessione delle donne ha fornito all’avanzamento delle società occidentali.

C’è la necessità infatti, di sottolineare le ragioni delle rivendicazioni femminili, perché hanno riguardato la società nel suo complesso, il suo progresso nel consentire a ciascuno/a una vita multidimensionale con il pieno riconoscimento del diritto all’autenticità degli esseri umani, esplicitando anche le loro differenze.

In ciò che segue vorrei perciò distinguere quelli che sono aspetti culturali più stabilmente consolidati dagli elementi più problematici e contingenti; entrambi hanno a che fare con la cultura femminile che è importante non trascurare. C’è il rischio infatti, che i primi inducano una sorta di rassegnata rinuncia a perseguire cambiamenti più rispettosi dell’individualità di ciascuno, mentre è utile considerare i passi avanti già realizzati, come pietre miliari che sono conquiste di civiltà, almeno nella cultura occidentale.

Il primo esempio riguarda la dichiarazione dell’esistenza di due generi che – a partire dalla Costituzione di Weimar (1919 art. 109) – per la prima volta trova posto in una carta costituzionale: si supera così l’idea che l’”Uomo” possa rappresentare tutta l’umanità, come per secoli si è scritto in documenti diversi.

Non si deve disconoscere questa acquisizione, perché seppure con una dizione diversa e più incisiva, lo ritroviamo nell’articolo 3 della Costituzione italiana, come diritto all’eguaglianza sostanziale di tutti gli esseri umani senza distinzione, che proprio il riconoscimento di quella primaria diversità ha comportato.

Un contributo importante all’identificazione delle caratteristiche proprie del genere femminile e di riflesso al riconoscimento di una maggiore articolazione dei sentimenti degli esseri umani, è quello fornito dagli studi di Carol Gilligan (1982) che – nell’evidenziare le modalità di affrontare problemi rilevanti nel corso di vita delle donne, come ad esempio la scelta di abortire o no – ha indicato come la cura delle relazioni, con il partner, con il nascituro e con sé stessa, costituisca un tratto distintivo dei comportamenti femminili rispetto a quelli maschili, questi ultimi più orientati a principi astratti e generali.  La morale della cura così identificata, ha costituito una potente chiave di lettura delle vicende, anche politiche, ed è diventato un elemento di riflessione atto a proporre interventi che integrino aspetti giuridico-formali con elementi sostanziali, collegati alle relazioni e al loro mantenimento.

La valorizzazione delle dimensioni di cura tuttavia, derivate da questa prospettiva, in Italia non è stata riconosciuta come generale esigenza sociale, perché è stata inquadrata invece, come necessario sostegno e aiuto alle donne che della cura e del mantenimento delle relazioni appaiono le prime responsabili.

Sin qui si può riconoscere il positivo apporto culturale proposto dalla riflessione delle donne.

Un’altra prospettiva che aiuta a cogliere una dimensione culturale più problematica, ma rilevante, per spiegare i comportamenti femminili che hanno riflessi importanti nel funzionamento della società è quella proposta da Agnese Seranis, (1997 p.19 ) fisica di professione, che in una sorta di autobiografia dedicata alla figlia, per alludere alla profonda diversità delle donne, si esprime con queste parole: “Noi donne siamo come delle immigrate nei territori della scienza, veniamo dalle cucine e dalle camere da letto…”. Questa considerazione getta luce su diversi elementi presenti nel dibattito sulle scelte di vita delle donne e sul famoso “tetto di cristallo” che viene richiamato quando le donne non raggiungono posizioni apicali o rinunciano a farlo o a mantenerlo, come mostrano le recenti e ben note dimissioni di alcune leader. 

Se si considera infatti, la profonda connotazione culturale dei tratti femminili, si riconoscerà facilmente quanto questi trattengano le donne dal distaccarsi e rinunciare ad essi; non intendo sostenere che siano queste le ragioni della scarsa presenza femminile in ruoli apicali, specialmente in Italia, perché ci sono molti e diversi motivi che lo impediscono, non collegati alle scelte femminili. Metterò in luce con un esempio che cosa intendo dire, proprio riferendomi alla diversità della cultura dell’immigrato; se infatti un immigrato approda in Italia, magari a Lampedusa, il suo intento non sarà quello di arrivare al Quirinale, ma si adatterà progressivamente, anche raggiungendo buone posizioni, alle condizioni che via via sperimenterà qui in Italia. Analogamente le donne, che hanno una tradizione di femminilità non orientata al comando e alle responsabilità apicali, fanno più fatica ad entrare in certi territori percepiti come maschili; ciò non vuol dire che dall’altro lato non siano esercitate attive operazioni di esclusione, ma la prospettiva di Seranis coglie un tratto che fa capire le origini per cui talune scelte effettuate dalle donne risultino complementari a quelle operazioni.

La sottolineatura da parte mia di questi elementi culturali non giustifica però la rinuncia a superarli, ma soltanto che vanno in primo luogo riconosciuti e fronteggiati, magari con misure anche parziali di raggio più circoscritto, purché orientate al loro superamento; in altre parole, i tratti culturali vanno comunque affrontati anche se si è consapevoli della necessaria articolazione nel tempo delle misure che via via si assumono. 

Un ultimo aspetto che vorrei segnalare riguarda la scarsa presenza femminile nelle professioni che attengono alle discipline scientifiche e tecnologiche (STEM). Anche questo appare un tratto culturale, sebbene siano più facilmente identificabili i meccanismi per il loro superamento.

Promuovere infatti l’interesse di bambine e ragazze verso le discipline scientifiche vuol dire in primo luogo rendersi conto che vi sono stereotipi che agiscono sin dalla scuola dell’infanzia e che orientano maschi e femmine verso attività connotate per genere; c’è un effetto combinato di modelli proiettivi, di giochi proposti e di attività quotidiane che canalizzano gli interessi degli uni e delle altre verso forme stereotipate molto precoci. Esporre sistematicamente invece, maschi e femmine alle stesse attività, a scuola, ma anche a casa, rappresenta una prima presa in carico di questo problema; insegnare le materie scientifiche promuovendone il gusto è ancora un altro passo. Si sa che tutto questo non basta, ma sappiamo anche che nei paesi di cultura collettivista, purtroppo con molte forzature per il loro superamento, gli stereotipi di genere appaiono meno accentuati e, stando ai risultati delle prove standardizzate internazionali, si registrano poche differenze negli esiti tra maschi e femmine. Per le società non autoritarie, si tratta di un percorso molto più lungo, ma è certamente una via da seguire con determinazione, se vogliamo superare il divario di genere che provoca effetti indesiderati non solo nelle discipline scientifiche, ma anche nell’economia finanziaria.

 

Riferimenti bibliografici

 

Gilligan C. (1982) In a different voice tr. It Con voce di donna Milano: Feltrinelli

Seranis A. Il filo di un discorso Milano: Eura Press Edizioni Italiane

 

Anna Maria Ajello già docente ordinaria di psicologia dello sviluppo e dell’educazione alla Sapienza e presidente dell’ Invalsi