Istruzione Tecnica: le prospettive

Nell’articolo precedente[1] si è visto il calo progressivo degli iscritti agli Istituti Tecnici spesso attribuito alla disinformazione, al pregiudizio culturale, e quindi al cattivo orientamento. Questa ipotesi ha del vero, ma ridurre a questo il problema del calo di iscrizioni è semplicistico. L’Istruzione Tecnica, in realtà, nonostante l’ultimo riordino (DPR 15 Marzo 2010), attraversa una crisi sistemica. Sarebbe necessario un ripensamento complessivo del modello formativo degli IT e un ripensamento complessivo del sistema scolastico, anche sequesto non è il tempo per operazioni forti. Occorre almeno tenere presenti gli equilibri con i due settori più vicini e con i quali c’è un ovvio rapporto: l’Istruzione e la Formazione Professionale  e gli Istituti Tecnici Superiori.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede, nella Missione M4C1 una riforma degli Istituti Tecnici e Professionali accanto a quella degli Istituti Tecnici Superiori e recita: «La riforma, implementata dal Ministero dell’Istruzione, mira ad allineare i curricola degli istituti tecnici e professionali alla domanda di competenze che proviene dal tessuto produttivo del Paese» incardinandola altresì nel contesto dell’innovazione digitale.

Difficile prevedere come questo si concretizzerà. La linea sembra essere, per gli IT,  quella di una più forte caratterizzazione nel senso un più stretto rapporto con il lavoro, recuperando in qualche modo il principio formativo originario (vedi articolo precedente). Questa prospettiva è sostenuta soprattutto dal mondo delle imprese industriali[2]. Per questo si possono immaginare alcune modifiche strutturali tra cui il recupero di alcune delle proposte e idee rimaste irrealizzate, incluse alcune emerse dalla Commissione   per il riordino [3].

Istruzione Tecnica e il lavoro.

Un problema che viene costantemente sollevato è lo sfasamento (mismatching) fra domanda e offerta di tecnici. Il mondo delle imprese, in particolare industriali, lamenta che il numero dei tecnici disponibili è costantemente inferiore a quello delle assunzioni previste. Il problema è in realtà più complesso.

I recenti bollettini mensili e trimestrali emessi da Unioncamere[4] mostrano, per esempio che effettivamente ci sono diplomati tecnici che è difficile trovare: per esempio il 45% dei meccanici e il 24 % degli amministrativi richiesti. Occorre però dire che viene chiesta in genere una esperienza nel settore per un numero di casi superiore o eguale al 64%.

In un sistema  frammentato, come il nostro, le piccole imprese non possono sostenere un addestramento sul lavoro dei neo assunti. D’altra parte né le pratiche di alternanza scuola-lavoro né l’apprendistato finanziato dalle Regioni è oggi sufficiente per fornire, in fase formativa, l’esperienza richiesta.

Una interessante fonte di dati è il progetto EDUSCOPIO[5] della Fondazione Agnelli che classifica le scuole anche secondo la capacità di garantire un lavoro sicuro e di qualità (occupabilità). Il rapporto tecnico[6] relativo agli esiti lavorativi offre una sintesi interessante.

Lo status occupazionale dei diplomati tecnici, a distanza di due anni dal diploma

Lo status occupazionale dei diplomati tecnici, a distanza di due anni dal diploma

-Occupati (almeno sei mesi nei due anni) 33,90%
-Sotto occupati (lavori non continuativi) 14,33%
-Studenti universitari 19,57%
-Studenti-lavoratori 13,86%
-Altri 18,33%

(Questi ultimi non risultano né come studenti né come lavoratori e includono ovviamente lavori irregolari e forse in qualche caso anche illegali)

É anche importante misurare la qualità dei rapporti regolari con due parametri:

 

Tipologie di contratto

Lavoro permanente in apprendistato 39,27%
Lavoro permanente a tempo indeterminato 14,90
Lavoro temporaneo 45,83%

 

Coerenza con la qualifica (secondo la classificazione delle professioni ISTAT)

Professione coerente 34,9%
Professione trasversale (accessibile con diversi tipi di diploma) 17,55%
Professione non coerente 47,49%

I dati variano ovviamente a seconda delle regioni, con un andamento nord-centro-sud del tutto prevedibile. Una tabella del rapporto ne rende conto analiticamente.  Vediamo due estremi

occupato sottooccupato studia studia e lavora altro
Veneto 44,74 10% 17,74% 19,12% 8,32%
Sicilia 21,17% 18,03% 23,43% 7,02% 34,03%

Analoghe differenze si verificano per la qualità del lavoro. Facendo sondaggi per singole città si rivelano anche le differenze fra Tecnologici ed Economici.

La situazione che emerge dal rapporto è così riassumibile:

  • Si è consolidata la doppia funzione degli IT: circa il 35% dei diplomati si iscrive all’Università, anche se solo il 20% a tempo pieno,
  • L’occupabilità e la coerenza del lavoro trovato rivelano un quadro debole e comunque fortemente correlato al territorio, con il consueto divario nord-sud,
  • Facendo sondaggi sulle classifiche in singole città si verifica che gli indirizzi Tecnologici hanno un esito migliore degli Economici sia in termini di occupabilità sia di coerenza,
  • I diplomati degli indirizzi Economici nelle regioni del sud hanno poco lavoro e poco coerente, nel nord trovano spesso un lavoro, ma comunque poco coerente. Se si considera il grande calo degli iscritti in questi indirizzi in tutto il Paese è evidente che la loro funzione (almeno per quanto riguarda il lavoro) sta diventando marginale

La perdita di posizioni dell’Istruzione Tecnica avviene< nella fascia medio-alta delle occupazioni, che era la sua caratteristica: è in parte una tendenza naturale e dipende dallo slittamento verso l’alto dei livelli di studio, comune del resto a tutti i Paesi avanzati, dovuto sia alla natura dell’offerta di lavoro sia alla tendenza a investire su studi più lunghi. Ma la debolezza della formazione terziaria breve  costringe a cercare i tecnici ancora in gran parte nella formazione secondaria e quindi a rafforzarla in questa direzione.

Come risolvere il problema della transizione scuola-lavoro? Fra gli strumenti classici per favorire la  transizione  ci sono l’orientamento, l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro. Questi strumenti sono in Italia molto deboli e talvolta contraddittori anche a causa della frammentazione e, in alcune zone del Paese, della debolezza del sistema delle imprese.  L’uso dei Poli Tecnologici come punto di coprogettazione fra scuole e imprese (anche piccole) non riesce a diventare sistema. Per questo, un vero e proprio sistema duale è imprescindibile[7] nell’Istruzione e Formazione Professionale e negli ITS: per l’Istruzione Tecnica si parla, come nel quaderno 15 di Treellle, di  elementi di dualità. Si tratta di incorporare nel curricolo modalità capaci di creare una cultura del lavoro. Occorre per questo affidare agli studenti compiti che siano simili a quelli di un’attività professionale e sottoporre a verifica i risultati secondo criteri standard. Questo richiede che la scuola possegga strutture tecniche simili a quelle delle imprese, il che si verifica in molti casi, ma non sempre. L’uso di alcuni sistemi tecnici fornisce di per sè una competenza talvolta anche certificabile: la Patente Informatica è stata una antesignana, ma ci sono molti altri esempi anche con sistemi tecnologici complessi, sia reali sia simulati. Il punto chiave è però una verifica del risultato esterna ed eseguita da persone del mondo del lavoro. La soluzione migliore è in realtà la creazione di un rapporto bilaterale e circolare fra scuola e impresa: l’impresa (un ente, un istituto, una onlus, uno studio professionale) offre una committenza a uno o più studenti che realizzano un prodotto o un servizio e restituiscono il risultato all’impresa. Questo modello è stato realizzato con risultati significativi nella sperimentazione dell’area di progetto, negli anni ’80.

Questo tipo di modalità didattica ha il vantaggio di non richiedere un dislocamento degli studenti all’interno dell’impresa per un sufficiente numero di ore, ma richiede comunque una seria disponibilità delle imprese e comunque investimenti in strutture e personale. Rimane il fatto che il lavoro non è solo competenza tecnica, ma anche contesto di relazioni, impegni, organizzazione e questo non lo può dare la scuola

Il principio formativo. Alla ricerca di una nuova sintesi

Spesso il declino dell’istruzione tecnica viene attribuito alla sua ‘licealizzazione’. Da qui la richiesta di una sua più netta caratterizzazione e distinzione rispetto ai licei. Ma cosa si intende per licealizzazione? Difficile attribuirla all’invadenza delle discipline dell’area comune. Il loro aumento nel riordino degli anni ’80, è dovuto essenzialmente all’introduzione nel triennio della lingua inglese, che ha anche una valenza professionale. Piuttosto va constatata la diminuzione delle ore destinate alla pratica di laboratorio nell’ultimo riordino e.soprattutto la perdita del rapporto con il lavoro. Da qui le proposte per un recupero del modello originario.

D’altra parte le conclusioni della Commissione per il riordino degli IT e IP[8], i Profili Educativi Culturali e Professionali della legge di riordino e le Line Guida per la sua applicazione confermano con forza e con una certa enfasi la doppia funzione dell’IT: formazione professionale e formazione della persona e del cittadino. Ma raccomandano di superare la netta divisione dei compiti che assegnava il primo alle sole discipline tecnologiche e il secondo a quelle storico-letterarie. Raccomandazione totalmente elusa già nella stesura delle indicazioni curricolari e didattiche e nella pratica[9].

La difficoltà maggiore viene, in questo senso, dalle discipline scientifiche e in particolare da quelle tecniche. Per quest’ultime il problema è particolarmente complesso. In esse convivono due anime: la tecnica/innovazione della scienza applicata, dell’invenzione, del problem solving, fra l’altro enfatizzata dai profili dell’ultimo ordinamento, e la tecnica procedurale/standard, delle competenze ben definite e possibilmente certificate. Già questo pone un dualismo non facile da risolvere. Ed è sostanzialmente assente, per ragioni storico-culturali, una terza dimensione: quella dell’approccio critico interno, che ne metta in evidenza la non linearità dell’evoluzione e la complessità delle scelte, ed esterno, che ne consideri l’impatto sociale e culturale. Si richiedono quindi nuove scelte culturali e nuovi metodi di insegnamento. Non è un problema che si può risolvere a breve e certo non con un articolo del piano PNRR.

Come si rapportano questi problemi di profilo formativo con l’ipotesi  di rafforzare il rapporto scuola-lavoro e con l’adozione di forme di dualità? Questa linea può spostare la formazione verso il sapere procedurale/standard? Oppure proprio questa ‘uscita dall’aula’ può offrire una formazione più completa? Si tratta è una bella sfida che ripropone in qualche modo il principio dell’unità di cultura e professione. Questo richiede che le imprese vedano la dualità  non solo come un mezzo di reperimento del personale, ma anche come un servizio alle scuole.

La riconsiderazione del disegno culturale è certamente importante. Ma non si può dimenticare che le diverse indagini OCSE o INVASI ci rivelano un grave scadimento di alcune competenze di base: dalla comprensione di testi scritti fino alla comunicazione mediata dalle tecnologie. E che il deficit riguarda in particolare il meridione del Paese e penalizza, a crescere, i Tecnici e i Professionali. Questo chiama in causa l’intero quadro dei fattori interni alla scuola, didattici e curricolari, ma anche dei fattori strutturali e di contesto. Fra questi va evidenziato il cambiamento di equilibrio fra Istruzione Tecnica e Professionale. Il numero degli iscritti all’Istruzione Professionale sta diminuendo velocemente, e questa sembra specializzarsi sul versante dei servizi perdendo soprattutto sul versante tecnologico. Ma siccome è proprio su questo versante che l’Istruzione Tecnica tiene, è probabile che essa, mentre perde iscritti nelle classi medie a vantaggio dei licei, ne guadagni nelle classi più svantaggiate e fra gli immigrati.

Una struttura curricolare più flessibile e dinamica

Il modello biennio propedeutico – triennio applicativo, ancora alla base dell’Istruzione Tecnica  è un sistema chiuso. È nato in un’epoca di saperi stabili e ben definiti in cui era concepibile, anche a livello di scuola secondaria, una formazione esaustiva e per sempre.  Ma è un modello in crisi per varie ragioni:

  • l’instabilità delle nuove tecnologie che sono evolutive, non mature e quindi imprevedibili,
  • le ibridazioni fra tecnologie, e in particolare l’ingresso dell’elettronica e dell’informatica che rimettono in discussione anche le tecnologie mature,
  • l’impossibilità, in molti casi, di chiudersi nello specifico tecnico ignorando il contesto sociale e persino culturale,
  • la ricerca della completezza che porta a programmi spesso troppo ambiziosi, non realistici.

Si tratta quindi di pensare a un sistema aperto, non esaustivo, che punti alla formazione permanente e garantisca la capacità di ‘imparare a imparare’. Anche per questo serve una struttura curricolare più flessibile e dinamica, che consenta scelte modificabili nel tempo. Modelli di curricoli flessibili e dinamici si possono trovare in molti sistemi scolastici, ma vale la pena riconsiderare strumenti che si sono affacciati nel nostro sistema, ma non realmente applicati.

a) L’area di progetto

Lo spostamento di attenzione verso competenze complesse e trasversali richiede un parziale spostamento dal curricolo oggi totalmente centrato sulle discipline a un curricolo orientato ai processi. Nel riordino degli anni ’80 ci fu un tentativo di creare un’area di progetto. Ci furono anche molte esperienze di successo, ma il carattere volontaristico di questa soluzione ha impedito che diventasse sistemica. Si tratterebbe di renderla organica e strutturale in una misura da decidere. È ovvio che questa strada è indispensabile se si vuole realizzare realmente quella soluzione di elementi di dualità interni al curricolo.

b) Una effettiva attuazione del Regolamento dell’autonomia (DPR n°75 8 Marzo 1999).

Ciò significa la divisione del monte ore tra una quota nazionale i cui obiettivi garantiscono l’unitarietà del sistema scolastico e una quota riservata alla scuola.  La Commissione per il riordino ipotizzava una quota di autonomia del 20% nel primo biennio e una quota crescente dal terzo al quinto anno. In questo schema possono trovare posto anche le opzioni offerte dalla scuola e le preferenze degli studenti.

Si noti che l’attuazione di questa formula  avrebbe anche un altro vantaggio: la necessità di tenere conto della varietà all’interno degli indirizzi. Le linee guida del Riordino risolvono questo problema definendo, per ogni indirizzo, due o più articolazioni. Una sorta di centralizzazione  della flessibilità. La quota riservata alle scuole, prevista dal Regolamento dell’autonomia, avrebbe potuto lasciare ad esse le articolazioni.

c) Dare un significato alla formula 2+2+1

La legge istitutiva degli attuali ordinamenti definisce la scansione del curricolo in un primo biennio, un secondo biennio e un anno terminale: 2+2+1. Mentre la distinzione è chiara per il primo biennio, per gli ultimi tre anni tutto si è ridotto alla constatazione lapalissiana che 2+1 è eguale a tre: non c’è traccia di una qualche differenza strutturale e funzionale fra il secondo biennio e il quinto anno: le discipline sono quasi tutti ben disposte a canne d’organo per tutto il triennio. Durante la discussione nella Commissione per il riordino emerse un’ipotesi piuttosto “forte” [10]avanzata da Michele Pellerey: dividere nell’ultimo anno gli studenti orientati al proseguimento degli studi da quelli orientati al lavoro.

La governance

L’autonomia amministrativa, organizzativa lascia alle scuole molte responsabilità, ma anche difficoltà di esercizio, sia in rapporto ai poteri delle istituzioni territoriali, sia alle norme generali dello Stato, per esempio il codice degli appalti, che debbono essere comunque rispettate. Non a caso i dirigenti scolastici sono in stato permanente di agitazione (basta vedere i confronti/scontri per la gestione dell’emergenza COVID). È unanimemente richiesta una riconsiderazione delle norme

Ma dal mondo delle imprese viene una richiesta assai più forte. Si associa l’età d’oro degli Istituti Tecnici a quel tipo di organizzazione e di gestione del tutto speciale, cancellata dai Decreti Delegati degli anni ’70, che hanno uniformato la governance degli IT a quelli di tutte le scuole. Nel già citato studio dell’associazione TREELLLE (nota 3) si proponeva fra l’altro di:

  • Rafforzare l’autonomia gestionale degli Istituti Tecnici introducendo uno statuto speciale che garantisca specificità di gestione e flessibilità amministrativa
  • Garantire la nomina di dirigenti di Istituto con esperienza specifica (il modello del preside-ingegnere)
  • Potenziare l’utilizzo di strutture laboratoriali dentro le scuole. Ma anche dare la possibilità di creare laboratori territoriali insieme ad altri enti, nell’ambito dei Poli Tecnologici.
  • Una articolazione delle figure docenti necessaria per gestire la maggiore complessità strutturale e curricolare.

I Decreti Delegati hanno istituito un governo della scuola basato sulla partecipazione dei docenti e delle famiglie agli organi di decisione e di governo. Una scelta di gestione sociale. Proprio contro questo nasce dalle associazioni come Treellle  la spinta a tornare indietro. Per esempio, a un consiglio di Amministrazione  in cui non siano rappresentati insegnanti e famiglie. Queste proposte sono politicamente almeno poco realistiche. Occorre però riconoscere che dare alle scuole il compito di realizzare un vero sistema di rapporto scuola-lavoro richiede comunque agli Istituti Tecnici una governance più forte.

Conclusione

Nella scelta di soluzioni per rinnovare gli Istituti Tecnici non si possono ignorare i problemi di contesto:

  • il rapporto con l’Istruzione professionale e la Formazione professionale regionale. È evidente che la situazione non è stabile. Si va alla ricerca di una ripartizione chiara di compiti fra Stato e Regioni che garantisca, fra l’altro, la verticalità e l’apertura verso l’alto dei percorsi. Fra le proposte in campo c’è quella di un’adozione del “modello Trentino” con la semplice eliminazione dell’Istruzione Professionale;
  • il programmato sviluppo degli ITS non può non avere una retroazione sugli IT, la cui funzione non necessariamente viene meno, ma certo diminuirà la pretesa di completezza e di terminalità.
  • Non si è parlato del rapporto con i Licei. Su quel versante ci sono movimenti non facilmente decifrabili, ma alcuni problemi visti per i Tecnici, per esempio la flessibilità curricolare, si pongono, in modo diverso, anche per loro. Chissà che, alla fine, non si prenda atto della necessità di una riforma di sistema.

[1] Mario Fierli – Istruzione Tecnica. L’evoluzione e lo stato attuale – Pubblicato il 13/10/2021 in questa rivista: http://www.educationduepuntozero.it/politiche-educative/istruzione-tecnica-levoluzione-e-lo-stato-attuale-prima-parte.shtml

[2] Si vedano ad esempio gli studi e le proposte dell’Associazione TREELLLE, tra i quali Innovare l’Istruzione Tecnica Secondaria e Terziaria. Per un sistema che connetta scuole, università imprese, Collana I Numeri da Cambiare 2015, e Il coraggio di ripensare la scuola – Sintesi analitica  Quaderno 15, Aprile 2019

[3] Si vedano in particolare: Documento finale della commissione 3 Marzo 2008 e A.F. De Toni Presentazione del documento della Commissione in AAVV Persona, tecnologie e professionalità – Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione n°120-121 – Le Monnier 2007

[4]www.excelsior.unioncamere.net     Bollettini mensili.

[5] EDUSCOPIO. https://eduscopio.it

[6] Esiti Lavorativi. Rapporto Tecnico https://eduscopio.it

[7] F. Pastore, C. Quintiano, A.Rocca – Una riflessione sulla durata della transizione scuola-lavoro in Italia. In Special Issue di Scuola Democratica – 2/2021 – Maggio-Agosto

[8] AAVV Persona, tecnologie e professionalità – Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione n°120-121 – Le Monnier 2007

[9] Si veda per un’analisi dettagliata di questo problema  M.Fierli – Scienza, Tecnologia (e Filosofia?) negli istituti tecnici– Education 2.0 –  Gennaio 2022

[10] Intervento di Michele Pellerey in AAVV Persona, tecnologie e professionalità – Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione n°120-121 – Le Monnier 2007

Mario Fierli