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Il PCI e la scuola – Il Pci come scuola

Pubblicato il: 14/04/2021 05:04:31 -


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Non sono pochi gli studi storiografici che hanno affrontato il nodo del rapporto tra Pci e formazione politica. Molti meno quelli che hanno approfondito, specificamente, il tema delle scuole di partito.

Negli ultimi anni due ottimi lavori, A scuola di politica di Anna Tonelli (Laterza, 2017) e Tutto il partito è una scuola di Andrea Pozzetta (Unicopli, 2019), hanno avuto il pregio di sistematizzare lo stato delle ricerche e di confermare un’evidenza, che a me pare essenziale richiamare subito: lo studio dell’evoluzione del sistema delle scuole di partito, cui il Pci dà vita già nelle battute finali della lotta di Resistenza sulla base delle precedenti esperienze di formazione del primo Pcd’I e durante la clandestinità, è un ottimo indicatore non solo dell’evolversi del progetto pedagogico e intellettuale del Pci ma dello  stesso sviluppo dell’identità comunista a contatto con i cambiamenti della società italiana e del contesto internazionale. Il che però implica una seconda evidenza, tutt’altro che scontata: il Pci fonda la propria impronta nella storia nazionale sull’obiettivo di costruire un’ampia operazione egemonica e pedagogica, in chiave trasformativa, che assegna al partito (ai suoi militanti e al suo gruppo dirigente, centrale e periferico) il compito di fecondare intellettualmente il Paese sulla base di una chiara identità ideologica e storico-politica.

Il Partito pedagogico

Il Pci è, per definizione, un partito pedagogico, che si radica con la volontà di aderire capillarmente e molecolarmente a un «territorio» (Togliatti) che va plasmato e ridisegnato grazie alla forza intellettuale e culturale del partito e dei suoi quadri. Di più: il Pci è a tal punto un partito pedagogico che l’attenzione per l’affermazione della propria identità attraverso un adeguato apparato scolastico precede persino l’attenzione del partito verso il sistema scolastico nazionale. E tuttavia questo approccio pedagogico non è statico ma cambia, si evolve nel tempo.  Nasce con i due fari di Gramsci e del mito sovietico: è Gramsci che organizza a Torino, nel 1919, i primi corsi della «scuola di cultura e propaganda socialista» di Ordine Nuovo. È lui, per dirla con Fiamma Lussana, il «mandante delle scuole ideologiche»[1]. E sono sovietiche le scuole assunte come modello di riferimento, come si evince dalla lettura dei materiali del primo corso organizzato nel 1925 ancora da Gramsci per la Sezione ‘Agitazione e propaganda’ del Pci, incentrati sul materialismo storico e sulla storia del partito sovietico. Nutro tuttavia perplessità sull’utilizzo della categoria di «pedagogismo dai tratti autoritari»[2]. È evidente che siamo ancora, a questa altezza, nella preistoria del grande progetto democratico di quel partito di massa che concepirà le scuole, con Togliatti, come terreno privilegiato di radicamento e di espressione identitaria.

 

È rilevante che un nuovo progetto educativo e formativo destinato ai militanti e allo sviluppo ideologico dei quadri si formi già nel 1944, a guerra non ancora conclusa, con i corsi di formazione al confino e subito dopo con i primi convitti-scuola per ex partigiani e reduci.  I programmi dei primi corsi organizzati presso la scuola centrale di Roma, a partire da quello inaugurale del gennaio 1945 (tre mesi, otto temi, 110 lezioni), sono ancora organicamente nell’alveo del legame con l’Urss.

Il progetto di emancipazione delle masse

Ma progressivamente Togliatti, affiancato da Pietro Secchia, decide di investire sulle scuole come veicolo di un progetto che mira ad ancorare sempre più esplicitamente il partito alla costruzione democratica repubblicana. Quel Pci è certo un partito educatore che pretende e impone una concezione totalizzante della militanza, ma è anche un grande soggetto che dà fiducia al popolo in carne e ossa e lo rende protagonista di un processo di alfabetizzazione. Nei corsi si affrontano insieme il materialismo storico e la grammatica. Si incrociano rigore e umanità, disciplina e una nuova educazione alla critica e all’autocritica.

A partire dal VII congresso (1951) si assiste a un cambio di passo coerente con questa prospettiva: l’attenzione è sempre più posta sulla formazione del quadro intermedio. L’obiettivo è attrezzare il bagaglio dei ‘soldati’ della nuova guerra di posizione. Occorrono militanti capaci di elaborare, non soltanto di recepire e trasmettere ordini. Le scuole sono il veicolo principale di quest’operazione raffinatissima, che vede la pubblicazione dei Quaderni di Gramsci, con la curatela di Felice Platone e la vigilanza di Togliatti, come il cuore di una nuova operazione di educazione politica di massa che, in coerenza con il gramscismo filtrato da Togliatti, apre il confronto con le altre culture democratiche, con la stessa dimensione nazionale e i suoi istituti culturali (a partire dalla scuola pubblica, che dalla seconda metà degli anni Cinquanta è finalmente al centro dell’interesse politico del Pci). Ne sono prova i nuovi corsi, che comprendono nuovi insegnamenti sulla storia del Risorgimento e sulla conoscenza della cultura nazionale, e la pubblicazione, seppure soltanto per pochi numeri, del mensile dell’Istituto di studi comunisti Scuola comunista.

L’altissima attenzione per le scuole di partito di questi anni è tutta in due nomine del 1957: quella di Alessandro Natta a direttore della nuova Sezione centrale scuole di partito, che sostituisce l’ufficio quadri, e quella di Enrico Berlinguer a direttore dell’ISC.

I compiti educativi del Partito di fronte ai nuovi fenomeni sociali

Gli anni Sessanta cambiano il partito, lo scuotono, lo costringono a fare i conti con gli stravolgimenti di una società in ebollizione, con l’irruzione sulla scena politica dei movimenti e dei giovani come soggetto sociale. Le scuole si aprono, con fatica ma si aprono a una nuova e più moderna forma di educazione politica. Se il decennio comincia con il durissimo rapporto sull’inadeguatezza del sistema delle scuole presentato da Valentino Gerratana alla Commissione centrale di controllo dell’aprile ‘61, si conclude con la riforma operata da Gastone Gensini, nuovo responsabile della Sezione scuole di partito, nell’aprile 1969. Il nuovo sistema prevede tre livelli: l’attività di massa, i corsi provinciali, la scuola di Frattocchie a Roma.  Nel decennio successivo nascono nuovi istituti di studi comunisti di livello centrale, ciascuno con una vocazione specifica: Albinea si orienta sui temi della Riforma dello Stato, l’istituto di Bari si occupa di Mezzogiorno, la scuola di Cascina di Politica agraria e così via.

È un passaggio importante, perché prelude alla destrutturazione ? che sarà compiuta tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta ? del concetto tradizionale di corso (onnicomprensivo: dalla logica alla storia della scienza, dall’economia alla letteratura) e del modello tradizionale di insegnamento (lezione frontale/studio individuale/verifica). Al suo posto nasce la forma del  corso monografico, del seminario di approfondimento, affidato a figure esperte, anche esterne al partito, e alla discussione. Si abbassa l’età media dei partecipanti, aumenta la componente di studenti, diminuisce quella degli operai. Il senso della trasformazione è chiaro: occorre formare i quadri intermedi, i funzionari da impegnare nel territorio, sia nel partito sia nelle amministrazioni locali, avamposto del nuovo riformismo comunista.  Naturalmente, ciò porta con sé l’abbandono di una certa (per quanto rigida) organicità ideologica, di cui le dispense di Luciano Gruppi erano e rimangono il simbolo palmare. Non più il marxismo-leninismo (non più solo il marxismo) ma prospettive differenti e trasversali, che attraversano il pensiero critico moderno e provano a fare i conti con la nuova egemonia della cultura liberale.

La crisi della missione pedagogica

A metà degli anni Ottanta, morto Berlinguer, questa tendenza diviene irreversibile e il disinvestimento sulle scuole di partito assurge all’emblema del disarmo organizzativo e identitario di un partito di massa che sceglie di diventare più leggero, sempre più d’opinione. Nell’arco di pochi anni arriva la Bolognina, la fine del Pci, la vendita di Frattocchie nel 1992 come epilogo simbolico di una storia, che è anche la storia di un’idea peculiare di cultura, formazione, pedagogia popolare, alfabetizzazione di operai, contadini, donne e uomini che il partito voleva classe dirigente.

Anche a causa della fine di quella storia, viviamo il tempo di una politica senza cultura politica, che fatica a guardare oltre il presente. Ma questo è tutto un altro problema; e un buon motivo per ripensare, criticamente, all’esperienza che abbiamo alle spalle.

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[1] F. Lussana, In Russia prima del Gulag, Carocci, Roma 2007, p. 49.

[2] M. Borrelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), Feltrinelli 2007, p. 34.

Simone Oggionni responsabile Cultura di Articolo Uno, storico e saggista,  ha recentemente pubblicato  con Efesto edizioni 'Lucio Magri. Non post-comunista ma neo-comunista'.

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