Home » Politiche educative » Il PCI e la scuola - 70 anni di cultura dell’educazione e di politica scolastica

Il PCI e la scuola – 70 anni di cultura dell’educazione e di politica scolastica

Pubblicato il: 10/02/2021 07:10:55 -


Print Friendly, PDF & Email
image_pdfimage_print

La ricorrenza della fondazione del Partito Comunista d’Italia (PCdI), il 21 Gennaio 1921, è un’occasione per riflettere sulla sua storia e sul suo ruolo politico.  Una parte importante l’hanno avuta, in questa storia, le idee  sull’educazione e la politica scolastica.

Le basi teoriche di una politica educativa

Per il primo periodo, di lotta e clandestinità, è difficile parlare di una politica scolastica del PCdI. Ma fin dall’inizio si formulano le idee fondamentali: il diritto di tutti all’istruzione, percorsi scolastici unitari non differenziati per classi sociali e un principio educativo destinato a rimanere, anche se in forme diverse, in tutta la storia del partito: l’unione di istruzione e lavoro. È un principio già nato nell’800 in diversi movimenti politici progressisti ed è adottato da Marx ed Engels. Compare nel Manifesto del 1848 come uno dei punti del programma rivoluzionario: questa scelta va contestualizzata nella società di metà di quel secolo in cui è diffuso l’abbandono dei fanciulli delle classi inferiori e il lavoro minorile in fabbrica. Ma è anche il primo passo per la costruzione dell’uomo nuovo, ‘onnilaterale’ che non solo dovrà unire cultura e lavoro, ma anche sfuggire alla forte specializzazione della divisione del lavoro. Per questo la formula sarà quella dell’ istruzione politecnica. Dopo la rivoluzione d’Ottobre, il principio marxista dell’unione tra scuola e lavoro e dell’istruzione politecnica diventa la base della politica scolastica in Unione Sovietica, guidata dalla rivoluzionaria e pedagogista Nadežda Konstantinovna Krupskaja ed è applicato concretamente fino agli anni ’30, con uno sforzo particolare per recuperare ragazzi sbandati.

I principi educativi di Gramsci

Durante il fascismo, nella clandestinità e nelle carceri, gli antifascisti, fra i quali Concetto Marchesi, discutevano anche di scuola. Nel PCdI sarà Gramsci a elaborare nei Quaderni dal carcere, in particolare negli scritti sugli intellettuali, un nuovo principio educativo e le basi di una politica scolastica destinati a rimanere nella politica del partito. Il progetto è quello marxista della formazione di un uomo onnilaterale, capace di unire cultura e lavoro. Un punto del programma rivoluzionario del Manifesto era stato: «Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro in fabbrica dei fanciulli nella sua forma odierna. Unificazione dell’istruzione con la produzione materiale». Gramsci sviluppa nei Quaderni, e in particolare nella parte relativa agli intellettuali, una lunga e originale elaborazione della questione posta da Marx e delle sue conseguenze sull’istruzione. È molto significativo un passo in cui, discutendo di cosa è un intellettuale, scrive:  «Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. (…) Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo e squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale. (…) Il modo di essere del nuovo intellettuale non può consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanente” (…)  dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista e non si diventa “dirigente”, cioè specialista+politico».[1]  Il lavoro deve quindi essere un’esperienza educativa per tutti all’interno dell’istruzione scolastica e si deve fondare sull’uso pratico delle tecnologie. Ma egualmente deve essere acquisita una cultura generale. Di questa Gramsci ha una visione molto seria, anche severa, perché questa acquisizione non può che essere faticosa. È in questo quadro che affronta la questione delle lingue classiche, che non hanno un potere taumaturgico, ma sono uno strumento formativo non facilmente sostituibile perché, se si giunge a un certo livello, richiedono un esercizio nello stesso tempo esatto e complesso.

Questi principi debbono stare alla base di una scuola di tutti, che deve essere unitaria e superare le sue connotazioni di scuola di classe. Gramsci nota che l’istituzione e la crescita dell’istruzione tecnica non esce dallo schema della scuola di classe perché è vero che permette una progressione (dal manovale all’operaio specializzato, dal contadino al geometra), ma sempre all’interno di un destino predeterminato. Nello stesso tempo toglie lo spazio per un liceo come scuola generale e lo consegna, come del resto Gentile rivendicò esplicitamente, alla funzione di conservazione dei ceti superiori. In un passaggio dei Quaderni Gramsci disegna addirittura un nuovo sistema scolastico che dovrebbe rimanere unitario fino a prima dell’università: Una scuola dell’infanzia, una scuola elementare, una scuola media e un liceo. Il tutto da concludere entro i 16 anni.

Il richiamo di Gramsci alla serietà dello studio non è affatto un sostegno allo stile catechistico-gesuitico dell’istruzione. Sostiene una didattica attiva, anche se non accetta l’attivismo come pedagogia generale. Basta una citazione su come dovrebbe essere la didattica nei licei:

«Il Liceo deve essere un elemento fondamentale dello studio creativo e non  solo ricettivo…la scuola creativa è il coronamento della scuola attiva…la scuola creativa è una scuola in cui la recezione avviene per uno sforzo spontaneo e autonomo dell’allievo e in cui il maestro esercita specialmente una funzione di controllo….nel Liceo dunque l’attività scolastica fondamentale si svolgerà nei seminari, nelle biblioteche, nei gabinetti sperimentali, nei laboratori»[2]. ()

Intellettuali e politica della scuola del PCI nel dopoguerra

Nel dopoguerra, con la costruzione dell’Italia democratica, nasce anche una vera politica scolastica del partito, nel frattempo ribattezzato Partito Comunista Italiano, a sottolinearne la caratteristica nazionale. Il primo impegno fu ovviamente nella Costituente, fu un’occasione straordinaria di confronto con tutte le parti e condusse ai principi fissati nella costituzione. Con la pubblicazione dei Quaderni dal Carcere il PCI compie una grande operazione politico-culturale: recupera il patrimonio ‘genetico’ dell’elaborazione di Gramsci e nello stesso tempo marca la propria originalità di partito nazionale. E questo vale in particolare per la politica scolastica. Accanto al partito nascono organizzazioni, associazioni che in vario modo si occupano di educazione e vengono istituiti due veri capisaldi: la rivista Riforma della Scuola e l’Istituto Gramsci.

Molti sono gli intellettuali impegnati, ma due sono quelli che spiccano: Lucio Lombardo Radice fondatore-direttore di Riforma della Scuola, Mario Alighiero Manacorda, condirettore della rivista e la responsabile della Sezione pedagogica del Gramsci, Dina Bertoni Jovine. Tutto il sistema scolastico è oggetto della politica. Nelle regioni governate dal PCI si verifica un grande sforzo per la scuola di infanzia ed elementare, tanto che alcune di queste scuole diventeranno nel tempo modelli di riferimento.

La riforma della scuola media dell’obbligo

Ma il fronte delle riforme è ora quello della scuola media, il prossimo passo sarà verso l’unitarietà del sistema con il superamento del doppio canale Scuola media – Avviamento al lavoro. «La scuola dei dottori e la scuola dei fabbri» dirà Concetto Marchesi. Già nel  1958 viene presentato il disegno di legge  del PCI  per un percorso unitario, uguale per tutti, dai 6 ai 14 anni, che postulava un nuovo asse pedagogico ovviamente gramsciano: «La formazione del cittadino di una società democratica e l’istruzione dell’uomo quale protagonista della storia e artefice, attraverso la conoscenza e il lavoro, di un sempre più ampio dominio del mondo». Lo scontro fu tra le proposte conservative della DC, in particolare il progetto Medici che proponeva una scuola media articolata in quattro indirizzi, e quella integralmente unitaria della sinistra e del PCI. La soluzione di compromesso fu la legge del 1962 che istituiva la scuola media unica, ma con una piccola area opzionale che permetteva di scegliere fra Latino e Applicazioni Tecniche. Il limite di questa soluzione era non solo il mantenimento, seppure molto ridotto, di una canalizzazione dei ceti sociali, ma il confinamento al ruolo di specialismo  della  tecnica, che la pedagogia gramsciana voleva al centro della formazione per tutti. Comunque questa riforma rimane, ancora oggi, il più importante cambiamento strutturale della scuola italiana dopo la legge Casati del 1858. L’ultimo cambiamento strutturale della scuola media avverrà, come vedremo alla fine degli anni ’70.

Non è arbitrario fissare agli anni ’60 l’inizio di una nuova fase politica e sociale segnata da grandi mutamenti sociali e culturali, potenzialmente rivoluzionari. Con lo sviluppo economico si espande l’istruzione scolastica. È in questa fase che il dettato costituzionale dell’obbligo di studio per 8 anni si realizza concretamente, anche se non totalmente, e la nuova scuola media ne è lo strumento. Aumentano nel frattempo le iscrizioni alla scuola secondaria superiore fino a meritare lo slogan di ‘scuola di massa’. Già di per sé questo fatto mette in crisi l’assetto della scuola secondaria superiore. Ma nel ‘68 i movimenti studenteschi portano in scena la rivoluzione culturale, globale, maturata nel decennio. Inizialmente la scena è la scuola stessa, la rivendicazione di protagonismo degli studenti, la conquista, anche di forza, di spazi di autonomia, la sperimentazione di pratiche di partecipazione e autogestione. Già questo è qualcosa che il sistema non può tradurre in riforme. Ma si aggiungono poi le lotte operaie che non rivendicano solo nuovi salari, ma una trasformazione globale dei rapporti di lavoro e la rivendicazione di una nuova cultura operaia all’interno dei luoghi di lavoro. La conquista del diritto a un periodo di studio libero e retribuito, le 150 ore, ne fu l’emblema. La saldatura con le lotte studentesche fu naturale.

La stagione delle riforme incompiute della scuola

In questo contesto nasce uno sforzo riformista rivolto alla secondaria superiore. Il PCI, in continuità con la sua storia, propone il proseguimento del modello unitario iniziato con la scuola media e propone, come principio educativo, in evidente continuità con il suo progetto originario, l’unione di cultura e professione. Già nell’aprile 1968 la Commissione Scuola del partito elabora il documento «Proposte per la riforma dell’istruzione media superiore» che traccia di fatto il profilo della nuova scuola. Anche gli altri partiti e i governi si mossero su questo terreno. Un evento di rilievo fu la convocazione nel 1970 a Frascati di un convegno internazionale dell’OCSE-CERI, organizzato da  Aldo Visalberghi, sulla scuola secondaria superiore. Ne nacquero i famosi 10 punti che proponevano una scuola con struttura unitaria, ma articolata, molto flessibile, con discipline comuni, opzionali, elettive. La scuola secondaria superiore avrebbe dovuto avere carattere pre-professionale per tutti gli studenti. In qualche modo la proposta del PCI trovava una sponda in un campo riformista moderno e avanzato, non marxista. Eravamo ormai in clima di compromesso storico e iniziò un dialogo destinato a durare fra tutti i partiti. Il PCI presentò il progetto di legge Raicich nel 1972 e poco dopo arrivarono quelli di DC, PSI, PRI. Il dialogo proseguì fino all’approvazione unitaria alla camera, nel 1978, del progetto di legge «Nuovo ordinamento della secondaria superiore». Con la fine della legislatura cadde anche il progetto.  E’ interessante ricordare che, in questo clima, fu la scuola media ad avere una seconda riforma con l’eliminazione dell’opzione Latino/Applicazioni tecniche, la scomparsa del Latino e  l’istituzione dell’Educazione Tecnica come disciplina comune.

Negli  stessi anni, l’approvazione dei decreti delegati, previsti  nella legge di riorganizzazione della scuola, portò a importanti trasformazioni di fatto. Il più generale fu quello del governo della scuola e degli organismi rappresentativi. Dal punto di vista culturale-pedagogico fu importante il decreto 419 del 1974 che istituiva la pratica delle sperimentazioni didattico-curricolari. Si aprì un laboratorio, con sperimentazioni molto varie, che sembrava alimentare e anticipare i tentativi di riforma, nel quale si formò una generazione di insegnanti-sperimentatori, vere avanguardie di una futura riforma, e favorì anche una nuova editoria scolastica

Ci vollero anni prima di arrivare a un nuovo progetto di riforma, questa volta nato e sviluppato con la collaborazione di tutte le forze politiche, in sostanziale continuità con il progetto del 1978, ma che teneva conto delle sperimentazioni. Il progetto fu prodotto dalla Commissione Brocca istituita nel 1988 e implementato da un grande gruppo di esperti proveniente in gran parte dalle sperimentazioni. Il progetto non divenne legge e fu, per così dire, parcheggiato, come sperimentazione nazionale.

Il PCI e la scuola dopo il PCI

La storia della politica scolastica del PCI termina, a rigore, con lo scioglimento del partito nel 1991. Tuttavia il progetto culturale che esso aveva alimentato riprende forza negli anni ’90 con i governi di centro sinistra e con il ministero di Luigi Berlinguer. Il suo progetto di riforma, davvero radicale nella struttura del curricolo, era, sul piano culturale, in piena continuità con le sperimentazioni degli anni precedenti e ne era un segnale l’utilizzo in gran parte dello stesso personale nelle commissioni di lavoro. Entrarono anche altri temi, per esempio l’ingresso sistematico delle nuove tecnologie nella scuola.

Negli anni successivi questo processo venne interrotto, sia per scelte riformistiche molto diverse, sia per il disinvestimento nella scuola. In un breve ritorno del centrosinistra, con la legge Fioroni, fu elevato l’obbligo scolastico a 16 anni di età, con l’indicazione di nuovi obiettivi formativi, ma senza riforme strutturali. Fu poi portato a termine un riassetto complessivo della scuola secondaria superiore che sostanzialmente confermò, e per certi versi rafforzò, la struttura tradizionale.

Non è inutile domandarsi quali elementi di continuità ci siano oggi con le idee sviluppate nel ‘900, dal PCI e non solo. Rimangono ben fermi i principi costituzionali, e la loro effettiva realizzazione è un obiettivo permanente, perché essi non sono ancora del tutto realizzati. Sopravvivono, per esempio, forti disuguaglianze sociali e territoriali di accesso all’istruzione.  I diversi percorsi della secondaria superiore sono ancora in parte la fotografia delle stratificazioni sociali-culturali. Ma molte delle idee passate in rassegna in questo articolo meritano di essere messe alla prova, ed eventualmente aggiornate, di fronte ai fatti nuovi che investono la scuola. Per esempio le pratiche dell’alternanza scuola-lavoro. Ma soprattutto la grande rivoluzione tecnologico-culturale dell’informatica, dell’intelligenza artificiale, della rete e i grandi problemi di contenuto e di metodo che pongono.

[1] Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Edizione critica a cura di Valentino Gerratana – Einaudi 1975, vol III, pg 1551

[2] Antonio Gramsci cit. Vol I, p.486-7

Mario Fierli

75 recommended

Rispondi

0 notes
1992 views
bookmark icon

Rispondi