La “buona Scuola”. Seguire il filo di ciò che non c’è

Al documento sulla “buona Scuola” va riconosciuta l’ambizione di venire a capo di antichi problemi e d’introdurre alcuni elementi di modernizzazione. Proprio per questo non è ricerca del pelo nell’uovo ragionare anche di quello che non c’é.
Non deve essere, infatti, un caso che si sia ignorato il compito delle scuole per adulti nell’apprendimento lungo il corso della vita (già ignorato purtroppo, e nonostante i tanti Neet con sola licenza media, nel programma europeo “Youth Guarante”e di contrasto della disoccupazione giovanile); che non si dica nulla sull’insensata e antieconomica sovrapposizione in alcune aree regionali tra istituti professionali e formazione professionale; che alla durata del ciclo d’istruzione e all’età di conseguimento dei diplomi non si dedichi neppure un cenno, e così via su non pochi dossier di primaria importanza, come il ruolo della dirigenza nella gestione del personale, la flessibilizzazione del tempo di lavoro degli insegnanti, la stabilizzazione di funzioni e figure necessarie allo sviluppo dell’autonomia degli istituti.

Enorme, e sconcertante, è poi il vuoto culturale e politico sul tema strategico (per il futuro stesso della coesione civile e della vita democratica) delle responsabilità educative della scuola negli anni dell’immigrazione globale.
Se nella discussione che si sta aprendo si seguisse anche il filo di quello che non c’è, si vedrebbero forse meglio i limiti e i rischi di un approccio che ha troppo concesso al tradizionale vizio “quantitativo” per cui la qualità della scuola dipenderebbe, sopratutto, dalla moltiplicazione dei docenti. E che di quella concessione ha fatto la merce di scambio per far passare gli obiettivi – sensatissimi ma invisi a una parte della maggioranza – di carriere docenti basate anche su impegno e meriti, di dispositivi di valutazione della scuola e degli insegnanti, di rafforzamento del rapporto tra scuola e lavoro, di obbligatorietà della formazione continua.

Di qui, da un lato, il ribaltamento di cosa dovrebbe venir prima e cosa dopo nell’assunzione di altro personale, con il rischio di non disporre alla fine degli insegnanti appropriati per numeri, collocazione territoriale, specificità e qualità professionale a ciò che davvero occorre; dall’altro, l’affidamento a questo organico aggiuntivo di tutte le flessibilità che, per essere davvero utili, richiederebbero un po’ più di flessibilità anche del tempo e dell’organizzazione del lavoro dei “non aggiunti”.
Mentre la centralità – e i notevoli costi immediati e futuri – della megastabilizzazione finiscono con l’oscurare capitoli urgenti, con il rinvio chissà a quando di una modernizzazione ordinamentale, organizzativa, culturale della scuola italiana.
Per fare un solo esempio, e non dei minori. L’apertura della scuola a un mondo sempre più vasto, cui giustamente si riferisce il documento, non si può affidare solo a internet, e neppure solo all’inglese o a un rapporto più stretto tra scuola e azienda (le “tre I” di antica memoria, ora finalmente sdoganate…).
I quasi 800mila studenti di provenienza straniera, con la pluralità di lingue, religioni, culture che portano nella scuola anche quando sono nati da noi, sollecitano cambiamenti profondi del suo profilo e della sua dimensione culturale, interrogano su come si fa (e se si fa ) l’educazione alla cittadinanza, offrono l’opportunità di un prezioso apprendistato, fin dai primi anni di vita, alla capacità di apprezzarsi reciprocamente pur nelle differenze. Non è solo l’antirazzismo che si può e si deve imparare, in gioco ci sono gli strumenti conoscitivi e i comportamenti per non restare provinciali, per avere uno sguardo più curioso e meno conformista sulla realtà, per imparare a non diffidare, a scambiare, a collaborare tra (tanto o poco) diversi.

Possibile che nelle 136 pagine della “buona Scuola”, non si sia trovato il modo per – almeno – citare l’importanza di un’educazione inter-culturale e per considerare anche questa tra le priorità di una nuova formazione degli insegnanti e dei dirigenti scolastici? Non averlo fatto, fra l’altro, suona come un’inspiegabile sottovalutazione dell’eccellenza in questo campo di tanti istituti scolastici, e delle decisioni stesse della pubblica istruzione, le nuove Linee guida, la ricostituzione di un Osservatorio nazionale, le attività di formazione dei dirigenti, i progetti in corso, e una quantità di studi anche statistici ampiamente utilizzati da chiunque in Italia e fuori si occupi scientificamente del tema.
C’è tutta l’Italia più attiva e lungimirante sui temi dell’immigrazione che si aspetta un ruolo più forte della scuola italiana nell’integrazione degli stranieri e nell’educazione alla coesione sociale e alla convivenza civile di una gioventù destinata a essere sempre più plurale. Mentre ce n’è un’altra, molto presente tra i genitori italiani, che invece teme che dalla presenza nelle classi di tanti studenti stranieri derivino svantaggi cognitivi e di altro tipo ai loro figli. Bisogna rassicurarla, anche questa, non con l’abusata retorica buonista degli stranieri come “risorsa”, ma con l’impegno a garantire finalmente insegnanti specialisti nell’apprendimento dell’italiano come lingua 2, corsi e laboratori di approfondimento linguistico dove e finché servono – anche in estate, e prima dell’inserimento scolastico –, lingue straniere per tutti anche non europee, percorsi scolastici meno appesantiti da ritardi, insuccessi, ripetenze, difficoltà.

Una scuola, insomma, capace non solo di accogliere ma anche di sviluppare i talenti. Sebbene siano ormai molte le scuole impegnate su questo fronte, resta infatti scandalosamente alto, fin dalle prime classi della primaria, il tasso di insuccesso degli studenti stranieri, anche di quelli nati in Italia, che inoltre si aggrava, anche dopo anni di scolarizzazione, nel passaggio ai gradi più alti dell’istruzione. Uno spreco d’intelligenze – e anche di spesa pubblica – cui si deve mettere fine. Non solo, il trend crescente di accesso alla scuola superiore s’intreccia a forme insidiose di segregazione formativa – l’80 per cento dei ragazzi stranieri è nel comparto tecnico e professionale, con una sovrarappresentazione fortissima nei percorsi d’istruzione e formazione. Una questione che solleva seri interrogativi, non solo a proposito degli stranieri, su come si faccia orientamento nella scuola italiana, su quanto ancora pesi la condizione sociale nella scelta degli indirizzi, su quali vincoli produca, anche dopo anni di scuola, una non piena padronanza linguistica e, forse, uno straniamento culturale che i contenuti dei programmi scolastici non aiutano a superare. Questioni certo non affrontabili nell’ambito del dispositivo sui bisogni educativi speciali, foriero anzi di equivoci non essendo i deficit linguistici in alcun modo assimilabili alle difficoltà strutturali e permanenti delle disabilità.
C’è da sperare che la consultazione sulla “buona scuola” possa porre un qualche rimedio a un silenzio ingiustificabile.

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Fiorella Farinelli