Europa, considerazioni di un uomo qualunque (terza parte)

La questione della lingua

Fin dall’Antibarbarus, ovvero dalla celebre introduzione al Nizolio, Leibniz aveva individuato nella lingua il collante principale di una “nazione”. Aveva fatto di più. Aveva sostenuto una cosa molto moderna, e poco compresa. In due parole: il latino è la lingua della logica, il francese della metafisica, il tedesco diventerà una lingua importante per la filosofia, essendo ricco di termini “concreti”, e potendo comporre le sue parole in modo autonomo, ecc.
Fece di più: non solo espresse questa teoria, ma la praticò direttamente lui stesso; e così gli scritti di logica sono in latino, ad esempio l’Ars combinatoria, o le Generales inquisitiones, o le tante altre che uno può trovare nel Couturat; scrisse poi il Discourse de Metaphysique, il System Nouveau, i Nouveaux Essais, in francese (come forse si capisce), naturalmente scrisse la storia dei Brunswick-Hannover in tedesco, scrisse a Newton e a Oldenburg in inglese, scrisse in un perfetto italiano all’abate Conti e a Gabriele Manfredi. Eccetera.

Sì, va beh, Leibniz era Leibniz, non possiamo imitarlo, almeno non completamente, ma possiamo provare a capire quello che dice.
Allora, torniamo all’Europa. Dopo avere fatto l’Europa (si fa per dire, mica l’abbiamo fatta), e dopo avere disfatto l’Italia (questo sì, ci siamo riusciti), parafrasando quel tale, dovremmo fare gli Europei.
La questione linguistica, cruciale e sempre rimossa, appare un fatto essenziale, al di là della comprensione dei nostri politici.
E qui il Ciclope si sente un po’ a disagio: accostare Leibniz e i nostri politici, seppure senza paragone diretto, il fatto stesso di collocarli entro un medesimo discorso, appare più che blasfemo; ma pazienza, quando manca la calce, si fanno le case anche con lo sterco.

Ora, qual è stata la scelta europea? Scimmiottare l’Inglese, farsi dichiaratamente colonia, non avendo però il coraggio di andare fino in fondo: l’Inglese è la “lingua di lavoro”, le altre sono paritetiche come dignità, però possiamo fottercene. Battesimo dell’europeese, quello strano idioma che fa schifo a un madrelingua, in cui “actually” vuol dire “attualmente”, e il plurale di “person” fa “persons” anziché “people”.
Va bene, un po’ ci capiamo, basta che non sia un inglese a parlare, perché allora si capisce che è uno straniero.
Qui, da narratore esterno, vi devo rivelare che il Ciclope ha una certa esperienza, ha fatto molti meeting europei in “europeese”; per non dare nell’occhio (dio, che espressione infelice per un monocolo), si era tatuato un altro occhio finto vicino al primo. Per le dimensioni, diceva a tutti che mangiava molto, e gli era andato in tilt l’ormone della crescita.

Le strade logiche sarebbero state due: la UE parla Inglese. Tutte le scuole, dalle elementari, devono far studiare l’Inglese, e tutti lo devono sbiascicare, se non proprio parlare. Era la scelta che fecero i cow-boy, con il loro pragmatismo. Oppure, e questa è l’idea del Ciclope, si parla di Cutural Heritage davvero, non solo con programmi di ricerca con quattro soldi di finanziamento. Palle europee.
D’altra parte, come fidarsi di gente che chiama orsi i cavalli, e chiama caldo il freddo?

Allora uno comincia a pensare; e pensa a Shakespeare, a Cervantes, a Victor Hugo, a Goethe, vogliamo dirlo?, a Dante. Buttiamo via tutto? Quella era la via, pensa il Ciclope, quella “eredità culturale”. Da lì si doveva partire, altro che “persons” e “actually”.
Ora che Grillo ha un terzo dei voti del parlamento, il Ciclope si sente accreditato a dire: “fanculo”.

La questione della lingua era prima di tutto quella di consolidare le cinque letterature più belle, più sviluppate, più ampie, più divine del mondo, e fare gli Europei.

Si poteva fare?

Sì, si poteva fare, con un po’ di acume politico. Ma del come più oltre.

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Maurizio Matteuzzi (1947) insegna Filosofia del linguaggio (Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale) e Filosofia della Scienza presso l’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: “L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine?” (in “La regola linguistica”, Palermo, 2000), “Why Artificial Intelligence is not a science” (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., “Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs”, M.I.T. Press, 2005), “La teoria della forma”, Roma 2012.
Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia. È tra i promotori del gruppo dei “Docenti Preoccupati”.

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Maurizio Matteuzzi