Le esperienze dal basso e la volontà politica. Ancora sulla crisi della “scuola media”

Sono d’accordo con le riflessioni di Bastianon e con l’analisi da lui prospettata. La recente riedizione della “Lettera a una professoressa” non va sentita come mera operazione editoriale, né come ricordo di un’epoca passata. Come è stato ultimamente stigmatizzato anche dalla ricerca della Fondazione Agnelli, è ormai di tutta evidenza come la scuola media sia l’anello debole del sistema educativo del nostro paese. Non mi sembra che a tutt’oggi la politica sia consapevole di questa caduta della scuola media rispetto allo spirito della riforma originaria del ’62. E la pervasiva e ricorrente lamentela circa la svogliatezza e la scarsa preparazione dei ragazzi appare quanto mai inutile, dannosa e inconsapevole, perché non deriva dalla necessaria riflessione sull’origine della caduta del rendimento scolastico – quando non del disorientamento (che talvolta sfocia negli abbandoni) in cui versano i ragazzi della scuola media.

Sarebbe opportuno che lettori e collaboratori della rivista continuassero a discutere e contrapporre esperienze delle scuole in grado di indicare sul piano sperimentale quali sono le possibili soluzioni.

Mi permetto intanto di proporre una soluzione politica molto semplice: perché non si torna alla “riforma dei cicli”? In effetti la soluzione l’avevamo trovata, e sono personalmente convinto che, insieme all’autonomia, proprio la riforma dei cicli sia l’iniziativa di cambiamento più importante che sia stata prodotta allora. Essa era già diventata legge e non solo una conquista parlamentare. Se n’era già avviato il processo di attuazione.

Voglio ricordare brevemente le finalità della “riforma dei cicli”, cancellata sul nascere dal ministro Moratti:
1) accorciava di un anno il percorso scolastico, facendo uscire dalla scuola i nostri ragazzi a 18 anni come avviene in molti altri paesi d’Europa;
2) e fra l’altro produceva risparmi senza penalizzare i docenti;
3) affrontava seriamente il problema della verticalità dei curricoli;
4) introduceva un passaggio morbido dalle elementari alle medie in un momento delicatissimo dello sviluppo psicofisico dei ragazzi;
5) evitava inoltre che il passaggio (certamente necessario) dall’apprendimento per grandi aree a quello per saperi specializzati fosse brusco e uniforme;
6) superava la cesura interna all’obbligo scolastico evitando tutte le contraddizioni che Bastianon ha ben evidenziato.

L’allungamento dell’obbligo a 16 anni accentua la necessità di favorire ulteriormente un ponte fra il I e il II ciclo. Come si capisce la riforma dei cicli è divenuta ancora una volta non rinviabile. La Svezia ha già preso un’iniziativa analoga, gli altri paesi nordici sono in movimento, in Francia il problema del collège (scuola media) si pone con la stessa acutezza e già si discute di misure che preconizzano qualcosa di simile. Noi, grazie alla Moratti, abbiamo perduto 10 anni.

Se non sostenuta da un’architettura educativa significativa, l’esistenza degli Istituti comprensivi – peraltro assai opportuna – apparirebbe motivata dall’esigenza di ben magri risparmi di spesa. Senza una riforma dei cicli, gli insegnanti delle elementari e delle medie restano dei separati in casa, salvo rare eccezioni.

Da ultimo, sono consapevole che un riordino dell’architettura non è sufficiente, perché è ormai indispensabile e improrogabile un radicale e profondo cambiamento dell’impianto educativo nel suo complesso, della stessa idea di scuola, come sosteniamo in questa rivista.

Partendo dalle suggestioni delle nostre pagine e dello stesso Bastianon, non è forse questo il momento giusto per riaffrontare con energia un problema che consideriamo di primaria importanza, particolarmente a livello di iniziativa politica e di governo? Compatibilmente con i tempi del suo mandato, ci permettiamo di adombrare una tale questione allo stesso ministro Francesco Profumo.

Luigi Berlinguer