Dittatura della democrazia cognitiva

Sta accendendo  curiosità e  qualche riflessione  un nuovo libro su scuola e  lavoro –  Testa Mano Cuore – scritto dal giornalista e analista politico inglese David Goodhart[1].  Non è uno dei soliti  studi sulle competenze per il lavoro, e su come i fabbisogni professionali dovrebbero essere meglio  considerati dai sistemi educativi ( quello inglese, secondo l’autore, è intriso più di altri  di un’autoreferenzialità estrema, e perciò responsabile di non pochi misfatti ). C’è molto di più. Descrivendo con brillante stile giornalistico storie, fatti, umori del mondo del lavoro,  Goodhart sostiene  una tesi che in molti ambienti, non solo britannici, può apparire una provocazione. Sarebbe infatti la “dittatura” della meritocrazia cognitiva, orgoglio  del modello educativo inglese, la causa principale  del diffondersi, in vasti settori di lavoratori, di sentimenti di frustrazione ed emarginazione che si traducono in vere e proprie bombe di sgretolamento sociale.  Il contesto  è la realtà anglosassone di qua e di là dell’Atlantico, quella del  consenso popolare all’uscita dalla UE del Regno Unito  e del trumpismo osannato dagli operai statunitensi. “Se volete capire la Brexit e il populismo dell’entroterra americano, leggete questo libro”, è il commento del  Financial Times.  Per “dittatura” della meritocrazia cognitiva si intendono  le politiche di intensa e quasi ossessiva “laureizzazione”  innescati nella Gran Bretagna  della deindustrializzazione tatcheriana, con cui si è finito per riconoscere valore, nel lavoro, nei livelli retributivi, nel prestigio sociale, solo a chi possa vantare le credenziali assicurate dal difficile accesso alle ultraelitarie università inglesi e da un sapere di tipo accademico. A chi, insomma, lavora solo con la Testa. Con  effetti negativi in più campi, tra cui  la radicale  svalorizzazione di tutti gli altri che invece, pur tutt’altro che privi di intelligenza e di cultura, lavorano con la  Mano (  operai e  tecnici ) e con il Cuore  (addetti ai servizi e alla cura delle persone ). Quelli, insomma, della cui essenzialità per la tenuta economica e sociale delle comunità, si è avuta  conferma durante la pandemia, infermieri, operatori sanitari, lavoratori dei supermercati, corrieri, addetti alle pulizie, badanti, maestri, assistenti sociali, operai e tecnici. Figure e ruoli  sempre meno  riconosciuti anche in termini di apprezzamento   della complessità ed interazione  delle loro competenze professionali ( magistrale, a questo proposito, la descrizione delle capacità sia tecniche che relazionali indispensabili agli autisti  dei bus in una grande città che  gestiscono, insieme alla complicazioni del traffico, la regolazione dell’afflusso e della sistemazione degli utenti). Un vero guaio, sostiene Goodhart, aver fatto della Mente e del sapere solo cognitivo  il “gold standard della stima umana”. Se è stato importante, nei Sessanta e Settanta del secolo scorso, ottenere il diritto universale  ai più alti livelli di istruzione, privilegio allora di pochissimi, oggi il primato del “cognitivo” di tipo accademico sta portando a società sempre più divise e percorse da pessimi umori. Dalle  disparità di un ordine sociale così ingiusto e malsano non si può uscire con correttivi solo sul versante del lavoro. La partita essenziale si gioca  nei sistemi educativi in cui è di vitale importanza ricostruire un sano  equilibrio tra l’educazione intellettuale-cognitiva, quella socio-emozionale e quella manuale-applicativa, oggi separate e gerarchizzate.

Chissà se la provocazione  troverà  in Italia ascolti non effimeri. E’ certamente vero, osserva Alberto Orioli sul Sole24ore[2],  che in un Paese dove il tasso dei laureati è tra i più bassi in Europa ( e dove un terzo degli adulti è analfabeta funzionale ), la lettura del libro di Goodhart può apparire alquanto straniante. Siamo lontanissimi da una “laureizzazione” spinta come quella inglese e anche, con grande dispiacere di alcuni, da forme minimamente paragonabili di meritocrazia cognitiva. Ma se la meritocrazia non c’è, non manca però  una pesante stratificazione sociale, fin dai 14 anni, dei percorsi del secondo ciclo che condiziona sia  l’articolazione della domanda sociale di istruzione che i risultati scolastici. Da un lato un vistoso e crescente addensarsi nel comparto liceale  dei figli del ceto medio-alto anche indipendente dalle effettive inclinazioni e capacità, dall’altro lo stigma di scuole per i meno capaci, i meno abbienti, i provenienti da altri paesi che  mette in stand by i tecnici, svuota i professionali, ghettizza la formazione professionale, tutto il comparto indirizzato al lavoro professionale di livello intermedio.  Quanto alle università, è vero anche da noi che sono poco in grado e poco interessate a formare le competenze necessarie ad affrontare le trasformazioni tecnologiche e, più in generale, la densità e complessità del lavoro professionale.  Un  sistema educativo che, mentre non rimescola abbastanza le carte delle condizioni sociali   di partenza, costruisce anche da noi  quel “vuoto al centro” di cui parla Goodhart, quelle carenze  di lavoratori specializzati e di tecnici, quell’assenza o scarsità di candidature per occupazioni che pure ci sono, quel gap tra formazione e lavoro che sta assumendo dimensioni allarmante. E intanto molte aziende scoprono, dopo tutto il gran parlare che si è fatto di società e di lavoratori della conoscenza, che anche i laureati non hanno le competenze  trasversali di cui ci sarebbe bisogno, la capacità di collaborare con i colleghi, la concentrazione, la continuità dell’impegno, tutte cose che  nei lunghi anni di università non si imparano ( e che si potrebbero imparare meglio in  esperienze formative fatte di studio e di lavoro ).  C’è materia abbondante, insomma, per prendere sul serio, anche  in un contesto diverso, molte delle sollecitazioni di Goodhart, ma anche nella politica capita che testa, mani e cuore, se pur ci sono, non vadano granché d’accordo.

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[1] D.Goodhart, Testa Mano Cuore. La valorizzazione del lavoro nelle società del XXI secolo, Treccani 2022

[2] Per il lavoro non basta la testa, Alberto Orioli in Sole24ore,1.5.2022

Fiorella Farinelli Politica e saggista,  docente esperta di  istruzione e formazione, componente dell’Osservatorio nazionale per l’Integrazione degli alunni stranieri