Differenziare l’autonomia? – di Giuseppe Fiori

Le Regioni Lombardia e Veneto, con un referendum consultivo alle spalle, e l’Emilia Romagna hanno avviato da tempo l’iter previsto per un’estensione dei poteri regionali, anche in tema di istruzione, a normativa costituzionale invariata. La rilevanza politica e istituzionale delle questioni sollevate sta emergendo in tutta la sua problematicità.

Roberta Calvano è dal 2016 professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza, presso cui ha creato e dirige un Master di I livello sul management delle Università, è autrice di numerosi saggi e contributi sui problemi costituzionali dell’integrazione europea, la tutela dei diritti fondamentali, i partiti politici, la legislazione universitaria e scolastica. Sull’importante tema dell’autonomia differenziata ci ha concesso un’intervista.

 

G.F. Tutto ha avuto inizio nel 2001, con la legge costituzionale n.3, di riforma del Titolo V della Costituzione che, all’art. 117, ha configurato un nuovo quadro delle potestà legislative dello Stato e delle Regioni anche in tema di servizio scolastico, ma una norma di quella legge non ha trovato finora attuazione: si tratta dell’art. 116 che prevede di attribuire alle Regioni interessate “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” in vari settori, istruzione inclusa.

R.C. Lo strumento disciplinato dal comma 3 dell’art. 116 Cost., consente alle regioni a statuto ordinario di chiedere ed ottenere, sentiti gli enti locali, forme e condizioni particolari di autonomia in un ampio numero di materie. Un aspetto finora non sottolineato nel dibattito sui mezzi di informazione, e che a mio avviso è molto importante rimarcare, è rappresentato dal fatto che la norma nasce come forma di autonomia differenziata “minore” rispetto a quella delle cinque regioni a statuto speciale di cui al primo comma dell’art. 166. Essa quindi non sembra prefigurare l’integrale attribuzione delle competenze legislative ed amministrative in tutte e 23 le materie cui essa fa riferimento, ma appunto un’attribuzione, previo accordo con lo Stato e nel rispetto dell’art. 119, di “forme e condizioni” di autonomia per le Regioni ordinarie che ne facciano richiesta. Si tratta quindi di “pezzi di autonomia” specificatamente richiesti in relazione al contesto territoriale, quindi sociale economico di una data Regione, rispetto ai quali, in deroga a quanto attribuito dall’art. 117 alle regioni ordinarie, si potrà chiedere di ottenere qualcosa in più. Questo significa che si viene a creare una sorta di regionalismo asimmetrico; quella dell’art. 116 viene infatti chiamata anche clausola di autonomia asimmetrica, con cui si deroga all’ordine delle competenze stabilito dall’art. 117. Ciò che è avvenuto sin qui, è che alcune regioni hanno attivato questa procedura per ottenere condizioni particolari di autonomia. Tuttavia, in particolare due di esse, Lombardia e Veneto, risultano aver chiesto l’integrale attribuzione di tutte le competenze nelle 23 materie. Almeno così risulta da quanto è stato possibile leggere sui giornali in questo periodo, perché larga parte della trattativa, comprese le bozze di intesa che sono state elaborate, è stata svolta in modo riservato. La situazione è tuttora molto fluida, ed è possibile che si ritenga necessaria una previa legge di attuazione dell’art. 116 per precisare meglio il percorso che porterà all’autonomia differenziata per alcune regioni, per cui anche ciò che diciamo qui oggi è valido rebus sic stantibus. Va subito segnalato che, se tutte le richieste iniziali fossero soddisfatte, ci si troverebbe nella strana situazione per cui l’autonomia regionale speciale delle cinque regioni (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino e Friuli Venezia Giulia), sarebbe sopravanzata due volte: in un primo caso ciò è avvenuto nel 2001 per alcune delle novità introdotte dalla riforma del Titolo V, vicenda sulla quale non è possibile qui dilungarsi; e per la seconda volta in forza dell’autonomia ottenuta dalle Regioni che avranno attivato l’art. 116 comma 3, che oggi risultano essere tre, mentre numerose altre già si attivano per seguire lo stesso itinerario. Il quadro che ne deriverebbe per il regionalismo italiano sarebbe davvero anomalo.

G.F. L’invocato principio di proporzionalità del finanziamento dei servizi di ciascuna delle tre Regioni al rispettivo gettito fiscale rischia di provocare, come conseguenza difficilmente evitabile, il disallineamento dei livelli essenziali delle prestazioni in tutto il territorio nazionale. Un vulnus costituzionale all’omogeneità delle prestazioni tra Regioni abbienti e Regioni meno abbienti e all’eguaglianza dei diritti sul territorio che può determinare una frattura di sistema.

R.C. Sin dall’introduzione dell’articolo 116 nel 2001 fu fatto notare, in particolare da Leopoldo Elia, che questa norma presentava delle criticità, introducendo una dissonanza nel testo costituzionale, perché suscettibile di introdurre degli elementi di disgregazione del sistema. Il terzo comma dell’art. 116 Cost. consente infatti di approvare una legge ordinaria, seppur rafforzata perché approvata a maggioranza assoluta – e quindi non sottoponibile a referendum abrogativo-, che viene a derogare all’ordine costituzionale delle competenze. Una simile legge potrà essere modificata soltanto con le stesse forme con cui è stata adottata, quindi con la previa consultazione delle autonomie locali, l’intesa dello Stato con la Regione e la votazione a maggioranza assoluta in Parlamento. Quindi pare facile prevedere che la Regione che ha ottenuto le nuove competenze difficilmente sarebbe disposta a tornare indietro rispetto a quanto acquisito, quindi a stipulare una nuova intesa.

G.F. Il Sistema nazionale di istruzione e formazione è ripartito tra potestà legislativa esclusiva dello Stato, relativamente alle norme generali sull’istruzione, potestà legislativa esclusiva delle Regioni, relativamente all’istruzione e formazione professionale, e potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni.Tale potestà definisce una competenza a legiferare dello Stato e delle Regioni con diversa intensità:. Un rafforzamento dei poteri organizzativi in capo alle Regioni interessate, fino alla competenza sullo status giuridico ed economico del personale della scuola, ridurrebbe l’intervento dello Stato a quello di configurare una semplice cornice di disposizioni per un quadro regionale sulle tematiche educative.

R.C. Infatti, altro problema importante è capire a quali limiti sottostanno queste leggi di differenziazione. Sicuramente esse sottostanno a tutte le norme della Costituzione, potendo derogare solo a quello che è previsto nel 116, e cioè per quanto concerne le competenze che le regioni possono “prendersi”. Devono poi indubbiamente essere garantiti i livelli essenziali delle prestazioni dei diritti dei cittadini, la cui determinazione da parte dello Stato è oggi avvenuta solo parzialmente. Entriamo quindi in particolare nella materia dell’istruzione. Questa fondamentale materia è fatta, nel testo costituzionale, di vari “pezzi”. Oltre ai principi e diritti fondamentali previsti negli artt. 33 e 34, nella Costituzione c’è il pezzo “norme generali sull’istruzione” che è riservato alla competenza esclusiva statale dall’art. 117; nella stessa norma c’è poi un altro pezzo che viene chiamato solo “istruzione”, che è di competenza concorrente tra lo stato e le regioni; poi c’è il terzo pezzo di “istruzione e formazione professionale” che è lasciato alle potestà residuale delle regioni; infine dalla materia istruzione è ritagliata l’autonomia lasciata alle istituzioni scolastiche. Lasciando da parte l’università e ricerca, il punto centrale è che, in base al 116, in questo momento risulta che le regioni Lombardia e Veneto starebbero chiedendo l’attribuzione di tutta la materia facente capo all’istruzione, norme generali comprese. Premesso ciò, che potrebbe poi variare nel seguito della trattativa, uno dei problemi che sorgono è che quella sulle norme generali in materia di istruzione è una norma contenuta anche nella prima parte della costituzione (e ripetuta nel 117), parte dove ci sono principi fondamentali, come tale inderogabili. Rischia di crearsi insomma una sorta di corto circuito anche la alla luce di quanto chiarito in proposito dalla giurisprudenza costituzionale, che rispetto al potere dello Stato di dettare le norme generali sull’istruzione ha spiegato che esse, dettando “discipline che non necessitano di ulteriori svolgimenti normativi a livello di legislazione regionale, delineano le basi del sistema nazionale di istruzione – sono funzionali, anche nei lori profili di rilevanza organizzativa, ad assicurare, mediante … la previsione di una offerta formativa sostanzialmente uniforme sull’intero territorio nazionale, l’identità culturale del Paese, nel rispetto della libertà di insegnamento di cui all’art. 33, primo comma, Cost.”. Come si vede bene, la pretesa delle Regioni di dettare anche le “norme generali sull’istruzione” andrebbe a minare uno degli elementi costitutivi dell’unità nazionale, risultando misura di dubbia costituzionalità.

G.F. L’autonomia delle istituzioni scolastiche, di rango costituzionale, potrebbe in definitiva risultare compressa dalle nuove istanze regionali, con il risultato dell’eccessivo squilibrio tra chi organizza un servizio e chi direttamente eroga il servizio stesso nei suoi aspetti curricolari . Compressione che risulterebbe più evidente nei rapporti di lavoro con il personale della scuola che vedrebbe una mutazione, nelle regioni interessate, dello status giuridico ed economico.

R.C. La preoccupazione dei docenti rispetto a quanto fin qui richiesto dalle Regioni appare fondata, poiché la richiesta fatta dalla Regione Lombardia e dal Veneto in base alle bozze di intesa sin qui pubblicate comporterebbe una regionalizzazione del rapporto di lavoro degli insegnanti e del personale amministrativo della scuola. Questo non potrebbe che comportare sostanzialmente una differenziazione nello stato giuridico ed economico ed una maggiore difficoltà quantomeno nei trasferimenti, ed infine il crearsi inevitabile di due (o più!) status di serie A e di serie B. A ciò si aggiunga che non sembra tenersi conto del problema che sorgerebbe rispetto alla massiccia componente di insegnanti meridionali che trovano più facilmente sedi disponibili al nord, e che poi hanno più avanti nella carriera la chance di riavvicinarsi a casa e alle famiglie ritornando al sud.

Da questo punto di vista bisogna però ricordare che già dalla legge sulla “buona scuola” n. 107 del 2015 erano stati fatti dei primi passi in questa direzione di “regionalizzazione”, laddove in essa si prevede che i concorsi vengano banditi su base regionale, nonché si prefigura la possibilità di un adattamento del piano dell’offerta formativa e dell’offerta didattica rispetto al territorio. Quindi, ora si assiste certo ad un tentativo di balzo in avanti su una strada, quella della regionalizzazione del sistema dell’istruzione, che si era tentato già di iniziare a percorrere in quest’ultimo ed in altri interventi legislativi.

G.F. Quanto il terreno sia minato è dimostrato dal fatto che nei quasi quattro lustri in cui ha operato la riforma del Titolo V del 2001 il concorso (la potestà legislativa concorrente Stato – Regioni) si è spesso risolto in conflitto di competenze; un braccio di ferro politico e istituzionale che si è spostato spesso alla Corte Costituzionale, le cui sentenze hanno tentato di chiarire alcune ambiguità di fondo. Ora si presenta il rischio di ricreare una situazione di ulteriore conflitto di competenze e di nuova belligeranza istituzionale e finanziaria. Il minimo comun denominatore delle tre Regioni, con realtà politiche, sociali ed economiche diverse, sembra essere costituito, oltre che dall’elevato livello medio di reddito, dalla maggiore efficienza nell’erogazione dei servizi ai cittadini e nelle relative spese. Questi fattori costituiscono un traino per reclamare la riduzione della quota dei trasferimenti allo Stato delle entrate tributarie relative ai settori decentrati.

R.C. La questione di fondo che si agita da molti anni nelle regioni del nord e nel nordest in generale è la questione del residuo fiscale. Le regioni del nord da tempo chiedono che rimanga sul territorio regionale la differenza tra quanto viene dal gettito fiscale e quanto lo Stato spende nella Regione sotto forma di servizi erogati in quello specifico territorio. Per cui la richiesta che viene fatta in queste bozze d’intesa sembra essere che larga parte del gettito fiscale della Regione, dopo una prima fase transitoria, venga affidata alle Regioni interessate sulla base dell’argomentazione per cui andrebbero coperti i costi delle nuove funzioni da attivare. Questo però comporterebbe inevitabilmente una diminuzione della distribuzione della ricchezza su base nazionale, nonché una differenziazione nella garanzia dei diritti, perché le regioni con reddito pro capite più alto avrebbero migliori servizi. Non vi è al momento una garanzia di una perequazione a seguito di questa operazione. Prevedere che il livello di tutela dei diritti venga garantito in relazione al gettito fiscale della regione di residenza significherebbe introdurre una misura apertamente incostituzionale, suscettibile di aprire la porta ad inaccettabili discriminazioni tra aree del paese proprio nell’ambito dei diritti e del welfare, dove già oggi si riscontra un divario importante tra nord e sud. Anziché diminuire questo divario, e tentare di risolvere i problemi di un regionalismo molto farraginoso, l’iniziativa in atto sembra suscettibile di andare a costruire un regionalismo ulteriormente complicato e ingovernabile, in grado di spezzare l’unità nazionale.

Giuseppe Fiori