Dalla scuola al lavoro. Un problema da affrontare – di Mario Fierli

Il programma del nuovo governo, come il contratto da cui discende, è molto avaro di visioni e strategie. Il capitolo della scuola non fa eccezione:  l’unico obiettivo generale enunciato nel contratto è che la scuola deve mettere i giovani in condizione di “affrontare serenamente il futuro”. Ma dopo questa affermazione, tanto  generica da poter essere sostituita da mille altre dello stesso tono, si saltano tutti i necessari passaggi di ragionamento per  passare direttamente a pochi provvedimenti pratici.

Non c’è niente di male adottare una modalità pragmatica. Ma anche il pragmatismo ha bisogno, se non di grandi visioni, almeno di un censimento organico dei problemi e delle loro interconnessioni. E poi siamo sicuri che i problemi di fronte ai quali ci troviamo abbiano bisogno solo di aggiustamenti?

Fra i tanti aspetti che si possono discutere  uno è certamente cruciale: il rapporto fra i percorsi formativi e il lavoro. Specialmente quelli professionalizzanti.Si può partire dal recente rapporto del Progetto Excelsior: Previsione dei Fabbisogni occupazionali in Italia a Medio Termine (2018)-2022 – UNIONCAMERE 2018, da cui si ricavano due dati:

Per il periodo 2018-2022 si prevede una scarsità di laureati: il rapporto tra i 673.900 neo-laureati in ingresso sul mercato del lavoro e il fabbisogno previsto di 778.100. Solo l’87% del fabbisogno di laureati sarà soddisfatto.

Per lo stesso periodo si prevede invece, per i diplomati, una situazione rovesciata.  Cercheranno lavoro  1.308.100  nuovi diplomati mentre  il fabbisogno sarà di 809.600. Solo il 60% della domanda di lavoro sarà soddisfatta. Ma la pecentuale varia a seconda dei diversi corsi di studio: sale fino al 100% per il settore servizi e scende sotto il 50% per i corsi non professionalizzanti (licei). Per i tecnici del settore industriale è mediamente circa il 60%, ma con differenze notevoli fra i vari indirizzi. Questa situazione è poi aggravata dalla presenza dei numerosi diplomati in cerca di occupazione già presenti sul mercato del lavoro.

Certamente il sistema scolastico non può creare posti di lavoro, ma la sua struttura può funzionare da facilitatore o da freno. Molti dati indicano che il nostro sistema formativo presenta seri problemi di interfaccia con il mondo del lavoro.

Per quanto riguarda i percorsi formativi dell’Istruzione Tecnica e Professionale,  emerge dalle annuali indagini Excelsior un ovvio fenomeno di “sfocatura” nel rapporto fra tipologie di fabbisogni del sistema produttivo e tipologie di offerte degli indirizzi scolastici. Per alcune professioni (impieghi nei servizi, tecnici meccanici) il titolo di studio è in linea con la richiesta. Per altre la richiesta prescinde quasi totalmente dal tipo di diploma.. Per altre ancora (per esempio nel settore informatico) è richiesta solo la laurea. C’è poi un problema di metodo didattico. Prevale ancora il modello della formazione per accumulazione di conoscenze, con scarsa attenzione a modelli “generatori” di competenze cognitive complesse. (Es. Problem Solving, progetto). Nelle indagini Excelsior per molti anni si è chiesto ai datori di lavoro in quale misura ritenessero importanti le competenze trasversali descritte in un dato elenco.  La risposta, in ordine decrescente è stata: Capacità di lavorare in gruppo, Capacità comunicativa scritta e orale, Flessibilità ed adattamento, Capacità di lavorare in autonomia, Capacità di risolvere problemi, Capacità di analizzare-sintetizzare informazioni, Capacità di pianificare e coordinare intraprendenza, creatività e ideazione.

L’annuale rapporto Alma Diploma fornisce dati sui percorsi post-diploma degli studenti dopo uno e tre anni, ottenuti da circa il 10% delle scuole secondarie superiori italiane. La partecipazione delle scuole è volontaria e quindi non si tratta di un vero campione, ma alcuni dati sono comunque chiari e costanti.  Si rileva, per esempio, una maggioranza di diplomati che uniscono, in vari modi, studio e lavoro. Questo dato nasconde certamente un’ampia area di precariato, ma anche la necessità di compensare una lacuna del sistema formativo. I lavoratori-studenti, in particolare, cercano in molti casi semplicemente un completamento del percorso formativo che li valorizzi meglio nel loro lavoro.

Già queste osservazioni mostrano che fra il diploma e la laurea c’è spazio per un canale professionalizzante intermedio. Il rapporto di ricerca dell’Associazione Treelle  Innovare l’Istruzione tecnica secondaria e terziaria. Per un sistema che connetta scuole, università e imprese (2015), ha mostrato che si tratta di una scelta strategica. In Europa esistono due modelli, quello tedesco e scandinavo con specifici istituti di istruzione terziaria molto strutturati e stabili, e quello francese, più flessibile, ma meno forte, basato su un doppio canale: percorsi post-secondari e lauree brevi professionalizzanti. Questo secondo modello è quello su cui si punta in Italia, puntando sia sullo sviluppo degli Istituti Tecnici Superiori, avviati già a partire dal   2008 nell’ambito di una riorganizzazione dell’Istruzione Tecnica Superiore nata nel 1999, sia sui corsi universitari professionalizzanti triennali introdotti dal Decreto MIUR di Novembre 2017 e che dovrebbero iniziare nell’anno accademico in corso.

Nei paesi europei il canale professionalizzante breve fornisce un grande numero di tecnici post secondari. Nel 2015 in Francia gli iscritti al biennio post secondario non universitario erano 240.000 e quelli iscritti nei corsi universitari di tecnologia erano 120.000. In Germania gli iscritti agli istituti di formazione superiore erano 1.030.000 (Rapporto Treelle citato). In Italia gli iscritti agli ITS erano 3.822. Una percentuale insignificante  rispetto agli oltre 2.000.000 di diplomati e laureati.

Occorre evidentemente un’accelerazione. Gli ITS funzionano bene, ma hanno pochi iscritti. C’è una forte differenza fra le regioni. L’attivazione di un ITS non è semplice. Occorre un contesto di scuole dotate di prestigio e capacità organizzativa, università e imprese disposte a una partnership reale e attiva, una Regione che esprima una seria e forte programmazione. Un limite degli ITS è la natura ibrida del titolo di studio. Per le lauree brevi professionalizzanti esiste già un modello funzionante, ed è quello del settore sanitario, che è la proiezione della netta distinzione fra professioni mediche e professioni paramediche che esiste nel mondo della sanità. Ma qui nasce una domanda: in che misura questo percorso può diventare un sistema, estendendosi rapidamente a molti settori tecnico-scientifici, tenendo conto dell’autonomia universitaria?

Tutto questo ha un riflesso sull’Istruzione Tecnica e Professionale. I loro problemi, a cui si è accennato, già oggi richiederebbero quanto meno un’indagine (del resto prevista dalla legge Gelmini) e probabilmente almeno una revisione dei curricoli e delle strutture. Ma se, come è necessario, la formazione postsecondaria e terziaria dovessero decollare e arrivare a quote confrontabili con quelle europee, questo necessariamente porterebbe a riconsiderare il ruolo della professionalizzazione secondaria, delle sue finalità e della sua struttura.

Il discorso si potrebbe allargare a un problema di sistema più vasto: il rapporto fra Istruzione Tecnica, Istruzione Professionale e Formazione Professionale regionale. E in particolare la debolezza della  Formazione Professionale, specialmente nelle regioni meridionali, al contrario di quanto avviene nel modello del Trentino, dove l’Istruzione professionale di fatto non esiste, mentre ha grande forzala Formazione professionale.

Le considerazioni di sistema chiamano in causa il rapporto stato-regioni sia per la Formazione professionale regionale, sia per gli Istituti Tecnici Superiori.

Vedremo nel tempo come si articolerà la politica della scuola. Ma per ora si deve constatare come sia singolare che, a fronte di un dichiarato interesse per le politiche del lavoro, almeno da parte di una delle due formazioni di governo, non ci sia il minimo cenno al sistema della formazione.

Mario Fierli