Il caso dell’Università di Twente: un pezzo di America in Europa?

L’Università di Twente ha avuto, sin dal momento in cui ha aperto i battenti al pubblico, nel 1964, un preciso obiettivo: quello di rivitalizzare un’area che presentava una forte arretratezza socio-economica rispetto al resto dei Paesi Bassi. In questo senso, tale ateneo è uno dei primi e più evidenti esempi (senz’altro il più importante in Europa) di quella che è stata definita “entrepreneurial university”. Partita dunque con uno scopo preciso, in un’area che si trova al confine con la Germania, essa si è organizzata dapprima attorno a tre facoltà maggiori: Ingegneria meccanica, Ingegneria elettrica e Chimica. Vista la sua caratterizzazione, un’altra importante attività ha riguardato la creazione di link con le imprese locali, che erano particolarmente isolate dal resto del Paese. All’inizio, l’università ebbe diversi finanziamenti da parte del governo affinché potesse iniziare a costruire queste connessioni, che sarebbero potute risultare un importante motore per il rilancio dello sviluppo e per la creazione di posti di lavoro. Inoltre si tentò di sperimentare diversi corsi caratterizzati da una contaminazione tra materie ritenute un tempo distanti, come le scienze dell’amministrazione e l’ingegneria.
Dalla spinta dell’università di Twente arrivò un input importante alle imprese geograficamente vicine all’università. Diversi studenti usciti da questa realtà hanno creato un proprio business, grazie all’aiuto dei fondi statali, e sono diventati la spinta propulsiva per il contesto socio-economico in esame.

L’Università di Twente presenta la percentuale più alta dei Paesi Bassi per quel che riguarda la creazione di spin off. In 20 anni dall’università sono nate oltre 700 imprese. Molte sono state lanciate con il TOP Programme (Temporary Entrepreneurial Positions), che le ha aiutate sia dal punto di vista finanziario che di guida strategica nei primi anni di esistenza. A distanza di cinque anni dalla loro creazione, il 70% di queste imprese sopravvive, portando alla creazione di 10.000 posti di lavoro. Lo scopo esplicito di questa istituzione è riassunto nella frase “hi-tech with a human touch”, che spiega come in questo caso si voglia provare a legare aspetti riguardanti le cosiddette “hard sciences” ad altri più tradizionalmente connessi alle “social sciences”. È altresì importante menzionare il fatto che, a partire dagli anni Novanta, l’università ha subito una profonda trasformazione, che ha portato il “Governing Board” e i “Research Centres” ad acquistare sempre maggiore importanza, togliendola allo stesso tempo ai dipartimenti e ai professori, dando vita a un’organizzazione in stile nordamericano.

Il caso descritto rappresenta un dato di originalità e sperimentazione negli atenei europei, anche olandesi nella fattispecie. Si è partiti pensando che il sistema universitario, sia quando più volto alle materie umanistiche, sia quando più volto a quelle scientifiche in senso puro, debba dare risultati tangibili: fondi, studenti, interesse. E si è anche costruito un contesto abitativo e di vita sociale intorno a questo concetto, risultante nell’unico vero e proprio campus esistente in Olanda. Può questa essere una buona pratica anche per l’Italia? È questa l’unica declinazione possibile del concetto di eccellenza nel settore dell’ “higher education”? Ci sono elementi validi che possono essere presi ad esempio? Quello che è certo è che avere un caso di questo tipo ha portato in Olanda a un dibattito molto forte sulle politiche universitarie, che sono diventate centrali anche nelle agende dei candidati nelle elezioni politiche, sia con programmi che vedono il caso descritto come virtuoso, sia con programmi che lo condannano come troppo “americano”. Ma il dibattito è diventato finalmente di dominio “pubblico”. Non è forse questo uno dei problemi più annosi delle politiche universitarie italiane?

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Damiano De Rosa