La scuola autonoma delle competenze

In passato l’adeguamento delle cose da insegnare avveniva attraverso la riforma dei programmi a livello centrale, indicazioni metodologiche comprese; ai docenti veniva richiesto di applicarli correttamente, con una buona conoscenza soprattutto del contenuto. Più di recente si è cercato di far vela sull’apprendimento, chiedendo agli insegnanti di individuare e verificare degli obiettivi, ma la prospettiva nazionale del valore legale del titolo di studio non ha consentito quella necessaria autonomia dalla quale deriva il controllo dell’efficacia. Oggi apprendere si rivela un fatto problematico, sia per quanto riguarda il veloce cambiamento degli oggetti di cui impadronirsi, sia per la complessità delle operazioni che gli allievi devono mettere in atto non solo per riconoscere le conoscenze, ma per contestualizzarle, applicarle ecc., sia infine per le condizioni in cui si impara, che molto influiscono peraltro sulla motivazione.

Parlare a questo riguardo di curricoli scolastici significa un’operazione professionale non limitata agli aspetti trasmissivi, una maggiore autonomia di organizzazione didattica, capacità di ricerca da parte delle scuole per dare originalità al proprio progetto formativo e adeguatezza ai risultati, sulla base dei confronti che si producono sempre di più a livello internazionale e alle richieste della società, dell’economia, del mondo del lavoro ecc. L’innovazione didattica con particolare riferimento ai curricoli potrebbe essere collocata in un periodo circa ventennale (1970–1990) che ha coinvolto un po’ tutti i gradi di scuola e si denomina della “sperimentazione”, dalla terminologia adottata nel DPR n. 419/1974. Prima infatti si parlava più comunemente di nuovi programmi/orari. In quegli anni i curricoli, un po’ anche per gli aspetti teorici collegati alla cultura didattica anglosassone in merito alla loro elaborazione autonoma, sono diventati l’elemento di rilettura dei processi formativi, anche se non hanno potuto esercitare fino in fondo il desiderato cambiamento. Essi avrebbero voluto incidere sui processi organizzativi legati alla gestione del personale, ma non è stato possibile a causa del centralismo burocratico e sindacale; hanno potuto, seppure in misura limitata, fare da tramite fra le istanze economiche e sociali e la tradizione culturale; non sono stati in grado di mediare efficacemente tra i saperi e gli apprendimenti.

Una svolta c’è stata molto recentemente (2007), anche se in occasione di precedenti leggi di revisione degli ordinamenti alcune di queste istanze erano state introdotte, e riguarda l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, attraverso non più materie e programmi, ma assi culturali e competenze. Questo non solo allarga l’orizzonte sul piano delle modalità di organizzazione delle conoscenze e dei processi formativi, ma mette in relazione sistemi diversi che, contemporaneamente, operano nell’ambito del predetto obbligo, con l’obiettivo non tanto dell’uniformità del programma quanto dell’equità del curricolo.

Infine, non si può non pensare all’Europa e al pronunciamento, che risale oramai al 2003, sulle competenze di cittadinanza attiva. È un’altra bella sfida non solo per la costruzione del cittadino europeo, ma per il modo con il quale questo obiettivo viene perseguito mescolando i sistemi, le tradizioni di popoli diversi e quindi di ordinamenti e culture professionali che solo da poco hanno iniziato a dialogare con alcuni intendimenti comuni.

Gian Carlo Sacchi