La governance scolastica: dalla burocrazia alla democrazia

Il settore pubblico, spesso visto come fattore di inefficacia, inefficienza, se non di spreco, è stato oggetto di attacchi violenti, almeno dagli anni Ottanta in poi e con accanimento, ancora oggi, soprattutto nel nostro Paese. Lo Stato, dunque, faccia un passo indietro dall’istruzione pubblica, lasci che il mercato o il quasi-mercato della concorrenza, della selezione, della trasparenza, dei consumatori, faccia il suo corso. Saranno le famiglie a scegliere il meglio dell’istruzione per i propri figli, saranno i movimenti della domanda e dell’offerta garantiti dalla scelta di consumo scolastico a decretare vinti e vincitori: le “buone” o le “cattive” scuole. E così a catena: i buoni insegnanti e i cattivi insegnanti, i buoni dirigenti scolastici e i cattivi…

Questa ricetta in molti sistemi di istruzione nazionali, primo tra tutti quello inglese con continuità tra i governi conservatori tatcheriani e quelli neo-laburisti, ha rappresentato un vero e proprio cambiamento i cui preoccupanti e conseguenti fenomeni di privatizzazione vengono finalmente alla luce. Si pensi al titolo “Education PLC” (Educazione S.p.A.)., di un recentissimo volume di Stephen Ball, punta di diamante dell’Institute of Education di Londra per le critiche al sistema inglese di istruzione managerializzato e mercatizzato.

Anche in Italia, negli anni Novanta si è sentita la necessità di sostituire il governo del sistema di istruzione da parte del centro statale, il Ministero con le sue periferie, gli ex-Provveditorati, che assoggettavano le scuole alle catene della piatta uniformità dell’offerta formativa e degli scadenti risultati scolastici. È questa la missione della nuova governance delle politiche scolastiche. Poco importa dunque se le letture degli esiti del nostro sistema di istruzione tengono troppo spesso in poco o nessun conto l’influenza dei contesti socioeconomici (per cui la Lombardia non è la Calabria) o le differenze tra i contesti professionali (per cui la scuola primaria non è la secondaria). Ma in Italia non ce la si è sentita (o non si è riusciti?) di sostituire del tutto il governo statale con la governance del sistema attraverso i meccanismi del mercato e della privatizzazione. L’autonomia delle scuole è nata così per tentare di conciliare nuove forme di regolazione della pubblica istruzione con le esigenze, pur da più parti avvertite, di ammodernamento e di riforma di un sistema molto “ingessato” e caratterizzato dalla “non decisione” (per ricordare altri due volumi di esperti italiani, Luisa Ribolzi e Luciano Benadusi).

L’autonomia, infatti, si basava su una delega alle istituzioni per promuovere dal basso, dalle scuole come luoghi di un’offerta formativa risintonizzata col territorio, e dalla periferia, gli Enti Locali e le Regioni, come istituzioni capaci di letture “fini” dei bisogni di quel territorio, quel cambiamento senza stravolgere, però, le prospettive di una scuola democratica e le sue finalità pubbliche. Con un tocco di managerialismo garantito dalla nuova (?) figura dei dirigenti scolastici, il nostro sistema si è avviato a sperimentare una nuova governance, ovvero una forma di regolazione tra le parti dove non funzionava più la cinghia di trasmissione del Ministero, come la ben nota metafora della “scuola delle circolari” ci ricorda.

Per approfondire:
• Stephen Ball, Education PLC, Routledge, New York 2007
• Luisa Ribolzi, Il sistema ingessato. Autonomia, scelta e qualità nella scuola italiana, La Scuola, Brescia 1997
• Luciano Benadusi (a cura di), La non-decisione politica, la scuola secondaria tra riforma e non riforma, il caso italiano a confronto con altre esperienze europee, La Nuova Italia, Firenze 1989

Roberto Serpieri