Alle origini dell’autonomia scolastica

Alle origini dell’autonomia scolastica, esattamente un decennio fa, il decreto legislativo 300 predicava, tra lo scaramantico e il profetico, che “in nessun caso le norme del presente decreto legislativo possono essere interpretate nel senso della attribuzione allo Stato, alle sue Amministrazioni o a Enti Pubblici nazionali, di funzioni e compiti trasferiti, delegati o comunque attribuiti alle Regioni, agli Enti Locali e alle Autonomie funzionali…”.

Dopo dieci anni possiamo affermare che le cose sono andate in modo assai diverso. Dopo la prima entusiastica fase di lancio dell’autonomia, durata grosso modo fino a poco oltre il 2001, inizia una stagione di revisionismo e di puntualizzazioni di fatto mirate a ridurre la portata della legge 59 del 1997.

Si può dire che per l’autonomia si applica il metodo che fu anticamente della teologia negativa o apofatica. Si afferma di lei soltanto ciò che essa non è. Non è balcanizzazione, non è fare ciò che si vuole, non è autoreferenzialità, non è tante di quelle cose che, alla fine, di positivo resta ben poco. Adagio adagio le note ministeriali tornano a essere vere e proprie circolari more antiquo, l’amministrazione riprende in mano le redini del sistema, ma non per fare ciò che le compete (norme generali, livelli essenziali ecc.) bensì per tornare a dettare nel dettaglio ciò che si deve fare nella quotidianità della scuola (persino sul modo di valutare). In questo impegno neocentralista gli ultimi due governi sono tra loro in piena continuità bipartisan!

Molteplici sono le cause e i sintomi di questa progressiva compressione dell’autonomia. Non voglio né posso indagarli in maniera sistematica, ma bastino alcuni esempi e poche considerazioni.

Certamente molte responsabilità stanno nella scuola stessa che non ha saputo cavalcare e sviluppare le potenzialità enormi offerte dal DPR 275 del 1999. Le scuole sono rimaste spesso assetate di direttive e di circolari. Ricorderò soltanto l’episodio emblematico della scheda di valutazione dopo l’avvio della riforma Moratti. Lasciata inizialmente alla scelta coerente e autonoma delle scuola, la scheda fu invocata a gran voce da presidi e insegnanti. E il Ministero si affrettò a riprendere la palla in mano e dopo il confronto con i sindacati (sic!!) inviò alle scuole l’agognata scheda. Correva il 2004. Ma è solo un esempio. Nemmeno il più importante. Si pensi al 20% del curricolo, sacrificato alla intangibilità delle cattedre e delle discipline. Alla possibilità di utilizzare i docenti in altre scuole e via dicendo.

Ma se le scuole hanno sprecato le loro opportunità così è stato anche per l’Amministrazione. La mia tesi, anzi, è che la mancata riforma dell’Amministrazione ha di fatto bloccato l’autonomia. Eppure il citato decreto legislativo 300 e la sua applicazione in campo scolastico (il DPR 347 del 2000) avevano aperto non uno spiraglio, ma uno squarcio immenso. Soppressi i provveditorati agli studi, sostituiti da strutture amministrative che avrebbero dovuto essere molto leggere (i CSA). Istituiti i CIS, ovvero strutture snelle di supporto professionale alle scuole. Regionalizzata la struttura ministeriale, con ampia autonomia concessa ai direttori generali regionali. Cura dimagrante anche per l’amministrazione centrale. Tutte scelte che erano fortemente orientate all’autonomia. Ma fin da subito la macchina amministrativa ha preso un’altra strada. I provveditorati sono sopravvissuti a sé stessi e di fatto operano né più né meno come in passato. Le direzioni regionali hanno scarsissima autonomia, sottoposte come sono al controllo politico-amministrativo dei capi dipartimento e del gabinetto del ministro. Per altro il ruolo degli Uffici regionali non si è venuto delineando con la dovuta chiarezza e le scuole non ne percepiscono la reale funzione. Ma il fatto certamente più grave è stato il pronto abbandono dei CIS. Poche sperimentazioni, che nessuno ha valutato, sono bastate a far dire che bastava l’amministrazione, che però non è mai stata in grado di erogare un vero supporto professionale alle scuole, se non con qualche personale distaccato.

Val la pena però di fare degli esempi concreti per documentare ciò che è successo.

1. Il potere di conciliazione. La rappresentanza legale negata
La vicenda è nota. Dopo i primi casi di gestione autonoma dei conflitti il Ministero, sulla base di un parere legale diciamo così “di parte”, tolse ai dirigenti scolastici il potere di conciliazione davanti all’ufficio provinciale del lavoro. Si disse che i dirigenti scolastici erano di fatto dei dirigenti di II fascia (ma non per lo stipendio!) e quindi funzionalmente e gerarchicamente dipendenti dal Direttore Generale. Non è qui possibile un’analisi completa dei testi. Basti dire che la tesi della dipendenza gerarchica non si regge su alcun testo legislativo o regolamentare. Diversa è infatti la funzione di un dirigente amministrativo inserito in struttura organizzata con a capo un direttore generale, dal ruolo del dirigente scolastico, legale rappresentante di un’autonomia funzionale, organo di una istituzione democratica e partecipata, responsabile della gestione unitaria dell’istituzione stessa e via dicendo. In verità la vicenda, cui le scuole hanno dato poca rilevanza e che ha trovato invece il favore del mondo sindacale che, chissà perché, va d’amore e d’accordo con l’amministrazione, ma non riesce a dialogare con le scuole, è paradigma dell’azione di svuotamento dell’autonomia compiuto nel decorso decennio. Un autentico scippo.

2. La razionalizzazione della rete scolastica. Il protagonismo negato alle scuole
Altra storia assai nota. Tutta la normativa in materia di razionalizzazione delle scuole, dal DPR 233 del 1998 al DPR 275 del 1999, senza tralasciare il D.L.vo 112 del 1998, è concorde nell’affermare che quando si tratta di modifica della rete scolastica i poteri attribuiti agli enti locali si collocano su un piano di equiordinazione delle volontà delle autonomie scolastiche. In sostanza le scuole vanno sentite in termini di proposte e di intese quando si vuole cambiare il loro assetto territoriale. Sappiamo che le cose non sono andate così. Gli enti locali e le regioni hanno spesso operato senza o addirittura contro le scuole. Ricordo il caso di una scuola che scoprì sui giornali che le era stato assegnato un nuovo indirizzo di studi che la scuola non aveva mai chiesto!

3. La formazione e l’aggiornamento
Forse l’esempio più eloquente. Il DPR 275 citato attribuisce alle scuole la “formazione e l’aggiornamento culturale e professionale del personale scolastico”. E fino a quando è arrivata l’autonomia le scuole erano soggetti attivi di formazione e aggiornamento. Il personale immesso in ruolo seguiva corsi in scuole capofila, sotto la guida di docenti e presidi selezionati tra i migliori del territorio, spesso con l’aiuto di IRRSAE e di Università. Poi arriva l’Autonomia e di colpo tutto ciò che riguarda la formazione viene centralizzato. L’ex BDP di Firenze diventa il perno di una gigantesca operazione di formazione on line, che nella fase iniziale, ma non solo, manifestò vistose e gravi falle. Eppure l’ex BDP-INDIRE non aveva tra i suoi scopi statutari la formazione e l’aggiornamento. La stortura, per così dire, è stata corretta dal Ministro Fioroni che con una riga della finanziaria 2007 ha riconosciuto alla neonata Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’Autonomia scolastica il compito tout court della formazione, senza nemmeno citare il fatto che le scuole l’avevano già e che quanto meno l’avrebbero potuta fare insieme.

In conclusione vien da dire con Italo Fiorin che eravamo più autonomi quando l’autonomia non c’era. Nel senso che vi era meno preoccupazione da parte dell’amministrazione di mettere paletti e recinti intorno alle scuole.

Paolo Franco Comensoli