Il buco dell’istruzione terziaria in Italia:  cause e possibili rimedi

L’istruzione negli Istituti tecnici Superiori: un confronto impietoso

In Italia solo  il  28% dei giovani tra i 25 e i 34  anni  ha titoli di studio di livello  terziario. La media europea è  44,  nel Regno Unito e nei Paesi nordici   è oltre  50. Su questa distanza  pesa nella realtà italiana  l’assenza – la grande debolezza –  dell’ istruzione professionale di livello terziario. Nella maggioranza dei Paesi europei si tratta di  un canale formativo solido e socialmente apprezzato che contribuisce per  un quarto al numero dei titoli  di livello ISCED (International Standard Classification of Education)  4 e 5. In Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Regno Unito, Svezia, Finlandia, Belgio  l’istruzione terziaria si articola in due rami distinti, quello ‘accademico’ e quello ‘vocazionale’. In Francia e in Spagna  sono  le università ad attivare  cicli formativi brevi professionalizzanti. Scegliere l’una o l’altra strada  non è indifferente, presentando ciascuna, e da più punti di vista,  vantaggi e svantaggi. In Italia, nonostante più tentativi nell’una o nell’altra direzione esperiti nel corso di mezzo secolo (il primo, una soluzione simile al modello francese, proposta col ddl Gui 1965-68, fu spinto su un binario morto  dalla contestazione studentesca, ma di tentativi non andati in porto ce ne sono poi stati  diversi altri), siamo approdati solo nel 2010 al decollo di Istituti Tecnici Superiori (ITS) di profilo non accademico. Un pezzo di sistema di tipo ‘duale’ in cui  gran parte dell’apprendimento si svolge on the job. A più di dieci anni  la  nuova offerta formativa ha però  una capacità di attrazione così limitata e una così scarsa notorietà dei diplomi fuori dal circuito delle imprese coinvolte nelle Fondazioni su cui si fondano gli ITS, da suggerire la necessità non solo di  maggiori investimenti finanziari ma anche di una revisione  di alcuni tratti del modello delineato dalla norma istitutiva del 2007.

Il dato che sintetizza meglio la situazione sta nell’impietoso  confronto  tra i 3.000 diplomati l’anno dei nostri ITS e i 90.000 delle Fachhoschulen tedesche. Altri dati, richiamati nel contributo  di Andrea Gavosto a un interessante Discussion Paper  dell’Università degli Studi di Milano[1], evidenziano il basso numero di iscritti (16.617 nel 2020  e l’alto tasso di abbandoni (28%), i  forti divari territoriali dell’offerta (su 104 Fondazioni, sono 20 quelle della sola Lombardia, mentre in tutto il Sud solo la Campania ne ha attivate 9), la prevalenza  di profili professionali che interessano  l’industria, in particolare meccanica, e la scarsità invece di offerta nel comparto dei servizi (tranne il turismo), presumibilmente più attrattive per il Centro-Sud. Significativi sono anche i dati sulla  domanda. Ad accedere agli ITS sono in larga misura diplomati degli istituti tecnici (il 60%, il doppio rispetto alle provenienze dalla larga platea potenziale dei licei, nonostante la presenza di  scientifici di ‘scienze applicate’); il 45% di chi si iscrive lo fa non a 19 ma tra  20 e  24 anni (forse dopo esperienze non felici con  l’università o  il mercato del lavoro); il 70 % degli allievi sono maschi.

Il buon risultato  in termini di rapido e coerente inserimento lavorativo (83%)  non toglie niente alle tante criticità, rendendo anzi ancora più urgente l’impegno a  superarle. È però improbabile che possa farlo  da solo l’investimento di 1,5 mld preannunciato nell’ultima versione resa pubblica del PNRR (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza da presentare alla COmmissione europea nell’ambito del Next Generation UE). Non solo. Non è scontato che  uno sviluppo quantitativo degli ITS basti a  rilanciare l’intera filiera professionalizzante di livello secondario che soffre di una spiccata svalorizzazione sociale e di vistosi addensamenti  degli studenti con background economico e culturale più basso, soprattutto nei professionali e nella formazione  regionale (IeFP) dove gli abbandoni sono infatti molto consistenti.  Senza interventi capaci di rendere più estesa la base della piramide e più eterogenea la sua composizione sociale, neanche ITS meglio sostenuti finanziariamente possono  illuminarla di una  luce nuova.

L‘identità ibrida degli ITS e il pasticcio del sistema duale

Di  riformare, comunque, c’è bisogno. A partire dall’identità degli ITS, piuttosto ibrida e resa poco riconoscibile dall’originaria decisione  di farne  più un’opportunità di specializzazione  per i diplomati degli istituti tecnici che  un’offerta formativa di alto livello per   diplomati  interessati ad inserirsi rapidamente nel mondo del lavoro e poco  propensi al tipo di apprendimento e ai tempi lunghi dei percorsi accademici. Tant’è che gli ITS  non fanno  capo al ministero dell’università ma a quello dell’istruzione, mentre le Fondazioni    a cui partecipano istituti tecnici e professionali, agenzie di formazione professionale, università, enti locali, imprese –  si costituiscono solo in base  a normative regionali perché sono le Regioni ad avere competenza esclusiva sulla formazione professionale. Con tutto quel che ne segue  di divari territoriali e di debole notorietà dei titoli. Dovrebbe essere rivisto  anche il tema  dei crediti per i possibili passaggi ai percorsi accademici, considerato che finora non ci sono state  le condizioni per il loro pieno riconoscimento  nelle università. Da revisionare e ampliare anche le sei aree tecnologico-produttive entro cui  le Fondazioni  possono sviluppare i percorsi (tecnologie della vita, per esempio, si sovrappone alle lauree professionali in campo sanitario).  Di  un impegno riformatore  parla, in effetti, anche il testo finora conosciuto del PNRR, ma in che direzione? A essere esplicitato è finora solo  il proposito  di  attivare  lauree professionalizzanti nelle università. Una strategia già avviata in forza del compromesso del 2017 tra il Ministero dell’istruzione e quello dell’università per l’apertura sperimentale di lauree professionalizzanti (non più di una per ateneo,  solo in base a specifici accordi con gli ordini professionali) che sono state in effetti attivate, in campi tecnologici ed economici, in una trentina di atenei.  Ma  che cosa significa questo? Per l’istruzione professionale superiore si prospetta una doppia via? O addirittura l’ assorbimento in ambito universitario degli ITS?

Nei contributi al Discussion Paper  dell’Università di Milano si trovano su questo punto pareri  diversi, con Andrea Gavosto da un lato a sostenere l’opportunità di dislocare tutto dentro le università e Francesco Pastore che argomenta il contrario. Sullo sfondo, l’analisi dei motivi di un possibile ripensamento da parte del mondo accademico degli orientamenti che, nel decennio 1990-99 e nel successivo (contrassegnato dal ‘processo di Bologna’), portarono gli atenei a non convertire, con la felice eccezione dell’ambito sanitario,  diplomi o  lauree triennali in percorsi professionalizzanti. A cui non sarebbero estranei , da un lato, la perdita di ben 40.000 iscritti tra il 2013 e il 2018  e il persistere, dall’altro, di tassi di abbandono straordinariamente alti.

Una svolta, se ci sarà, di sicuro positiva, che tuttavia non convince i sostenitori del profilo non accademico degli  ITS e, più in generale, della necessità di sviluppare anche in Italia un’intera filiera formativa professionalizzante di tipo ‘duale’, con uscite plurilivello  e comprensiva  di apprendistati formativi per l’acquisizione di titoli di livello medio e alto. Sulla scorta, quindi, del modello VET (Vocational Education and Training) di numerosi Paesi europei in cui,  non a caso, la quota degli early school leavers è più ridotta che da noi, i giovani con titoli di livello terziario sono molti di più, il gap tra istruzione e mondo del lavoro è più contenuto.

L’università italiana, si sostiene, non è ancora pronta a superare la cultura tradizionale  dell’indiscutibile superiorità della teoria rispetto alla pratica, del modello sequenziale dell’istruzione, delle potenzialità e del valore dell’apprendimento in contesti operativi. E poi anche della contrarietà a  docenti provenienti non dal mondo accademico ma da quelli del  lavoro e delle aziende. Il rischio sarebbe, dunque, quello di una ‘cannibalizzazione’ degli ITS, e della dispersione dell’esperienza fatta finora. Argomenti per più versi fondati.  Manca ancora, comunque, in questa discussione, una  riflessione su cosa riformare nella parte della filiera professionalizzante che sta in basso, fatta da istituti tecnici, professionali, istruzione e formazione professionale delle Regioni. Perché è anche e soprattutto lì che si gioca la partita. Non solo in un IeFP che solo in alcune aree regionali sta superando, anche con l’istituzione del IV anno per il diploma professionale, i tratti di una formazione di serie C cui indirizzare gli allievi con le biografie scolastiche più scadenti. Anche nei curricoli, nella didattica, negli alti livelli di dispersione, nella qualità degli apprendimenti e degli esiti dei professionali e dei tecnici. E perfino nell’obbligo, per i ragazzi, di ‘scegliere’ i percorsi, i post scuola media troppo anticipate in un esame di Stato collocato due anni prima della conclusione dell’istruzione obbligatoria. La questione della filiera professionalizzante non si esaurisce negli ITS e nel dove collocare l’istruzione professionalizzante di profilo terziario. Si collega ad altri nodi irrisolti anch’essi da cinquant’anni, su cui da tempo è difficile perfino discutere.

 

 

(link:International Standard Classification of Education (ISCED) – Statistics Explained)

 

[1] A.Gavosto, M.Ghizzoni, A.Mel,L.Modica, F.Pastore. L’assenza di un canale di formazione terziaria professionalizzante in Italia. Come porvi rimedio ? Discussion Paper n.3. Università degli Studi di Milano, 2020   www.fga.it

 

Fiorella Farinelli Politica e saggista,  docente esperta di  istruzione e formazione, componente dell’ Osservatorio nazionale per l’Integrazione degli alunni stranieri