Voto sì, voto no. Quale valutazione?

Dal Liceo Berchet di Milano al Liceo Morgagni di Roma e da molti altri Istituti scolastici si leva uno stesso grido di dolore: le interrogazioni, le verifiche, i voti, gli esami stanno generando nei ragazzi un disagio crescente, fenomeni di ansia, di stress, di crisi di panico. La cronaca registra casi estremi di suicidio di adolescenti incapaci di reggere la competizione scolastica. Così la scuola, un luogo normale di crescita personale e di allegra socializzazione dei ragazzi, tende a diventare il luogo di un disagio esistenziale inguaribile. 

Perché un’interrogazione, un voto, un esame assumono sempre di più per un ragazzo e la sua famiglia la funzione finale di uno “Stargate”, al di là del quale si apre un universo sconosciuto e ansiotico? 

Intanto, nelle scuole si procede alla diminuzione del carico didattico, sia rallentando la marcia verso il compimento dei programmi, sia sostituendo la lezione frontale con una miriade di “progetti”. In parallelo, si riduce al minimo il numero delle verifiche o si ricorre a tecniche di valutazione che non siano l’interrogazione frontale: prove scritte, quiz, questionari, “debate”. Oppure, soluzione estrema, praticata sperimentalmente in alcune sezioni del Liceo Morgagni di Roma, si aboliscono di fatto le verifiche finali per spingerle solo a fine anno. Già, le verifiche! Usare i voti in cifre o procedere con giudizi, nei quali sostantivi ed aggettivi si intrecciano nella nebbia?

Ciò che radicalmente viene messo in discussione è che la scuola possa azzardare giudizi netti, fissati inequivocamente in cifre. Se tutti hanno diritto all’inclusione e al “successo formativo”, se ciascuno ha un proprio ritmo di acquisizione del sapere disciplinare, se le intelligenze sono almeno otto o nove – ormai lo sanno anche i bambini – che senso ha pretendere di imprigionare nella stessa griglia valutativa ritmi, stili, individui così diversi. A queste considerazioni si aggiunge, quale fattore sovradeterminante,  “il facilismo”, una recente sindrome psico-culturale, per la quale ai nostri figli e nipoti dobbiamo, noi adulti, spianare la strada, rimuovere gli ostacoli, evitare gli shock, indorare le pillole amare che la realtà obbliga talora ad ingoiare. Del facilismo è agente principale la generazione dei genitori, cresciuti negli anni ’70, quella dell’espansione dello Stato sociale, quella dei diritti acquisiti non negoziabili, quella dei doveri dello Stato nei loro confronti, quella delle aspettative indefinitamente crescenti. Essa promette ai propri figli – alla generazione Alpha o “Screenagers” –  “l’isola che non c’è” e che non ci sarà mai. Sì, i ragazzi sono più fragili, ma si tratta di profezia che si autoadempie: sono fragilizzati dalle illusioni dei loro genitori. Donde, varie forme di depressione e di bullismo, quali reazioni ad una realtà esterna, con cui un adolescente fatica a fare i conti. 

Allora, voti numerici sì o no? Dipende dalla risposta alla seguente domanda: qual è il fine della scuola? Il fine è quello di mettere nello zaino di un ragazzo/a i saperi essenziali, che servono per capire il mondo e per inoltrarvisi, con una mappa alla mano. Si tratta dei saperi/competenze di cittadinanza: Lingua e linguaggi, Storia, Matematica, Scienze. È la vecchia versione italiana, ad opera del Ministro Fioroni, delle otto competenze-chiave europee. Si dovrebbe aggiungere Diritto e Economia. Quando il ragazzo/a esce dalla scuola, lui, per primo, e la sua famiglia e la società che lo attende al varco – o per l’ingresso nel mercato del lavoro o per proseguire gli studi superiori – hanno diritto di sapere che cosa c’è effettivamente nel suo zaino. Questa operazione si chiama certificazione. L’idea che il ragazzo/a possa attraversare gli anni scolastici come una leggiadra libellula in un giardino a primavera, senza che qualcuno gli dica, in base a verifiche scadenzate, qual è il suo patrimonio cognitivo, quale il suo livello di acquisizione dei saperi fondamentali è un’idea irresponsabile e suicida per i ragazzi e per il Paese. La verifica/certificazione del “merito” di un ragazzo è tanto più importante quanto più bassa sia la collocazione socio-economica della sua famiglia. Le famiglie benestanti possono tranquillamente farne a meno, perché il patrimonio che conta per i loro figli loro è quello socio-economico-relazionale, di cui sono portatrici, non quello cognitivo.  

Esistono varie tecniche di verifica e sono state pressoché tutte quante sperimentate. Ma, per quanto vi si giri intorno, la verifica è necessaria ed è tanto più efficace quanto più è netta e non lasci scampo ad ambiguità. Ora, da quando sono stati inventati, i numeri hanno, da sempre, la caratteristica ontologica della nettezza. La verifica “numerica” rigorosa è un esercizio rischioso e faticoso per chi la fa e per chi la “subisce”. Ma è il gesto fondamentale della responsabilità educativa che gli adulti a ciò deputati – gli insegnanti – si assumono nei confronti dei ragazzi, per il loro bene e per quello del Paese. 

Si può decidere di fare una verifica al quadrimestre, due all’anno. Si può decidere di non bocciare, di non fermare un ragazzo dopo solo un anno in un determinato ciclo o indirizzo. L’esperienza e le ricerche dicono che le bocciature sono utili solo per il 2% dei casi. Per tutti gli altri si traducono in perdita secca. Si può concordare la lunghezza del suo percorso scolastico con lui e la sua famiglia. Si chiama personalizzazione. Ma, in ogni caso, a ciascuno si deve dire la verità accertata pubblicamente. I voti sono un passaggio educativo e cognitivo fondamentale. Educativo, perché essa costringe ad anticipare e a sperimentare da subito – nella misura in cui il periodo scolastico è già vita reale, non separata dal mondo – l’impatto con la realtà della vita, nella quale ci sono felicità, dolori, ansie, sacrifici e sorprese. Cognitivo, perché ti dicono a che punto ti trovi lungo il sentiero della conoscenza.

Giovanni Cominelli esperto di politiche dell’istruzione, collabora a Nuova Secondaria, è editorialista politico del settimanale on line della Diocesi di Bergamo