La valutazione tra passato e futuro

La valutazione degli apprendimenti non è affatto indifferente né ai processi di insegnamento né alle finalità che una classe politica assegna a un sistema di istruzione. In una società e in una scuola selettiva, la valutazione sarà finalizzata in primo luogo a discriminare gli alunni cosiddetti “migliori” dai “peggiori”. Invece, in un sistema di istruzione democratico e inclusivo, la valutazione costituisce uno strumento di promozione e di orientamento per garantire a tutti, non uno di meno, quello che il nostro dpr sull’autonomia definisce il suo personale “successo formativo”. Nella storia del nostro Paese la valutazione, con alterne vicende, è servita nella scuola di base a socializzare i nuovi nati alla lingua e ai valori del Regno d’Italia, a orientare i “migliori” a studi fortemente intellettuali e i “peggiori” a studi tecnici e professionalizzanti. Con il fascismo la valutazione divenne uno strumento di vera e propria acculturazione al credo imposto dal regime fascista. Con l’Italia repubblicana, dalla fine degli anni Settanta la valutazione nella scuola di base obbligatoria ha assunto un ruolo promozionale, che nel corso degli anni ha conosciuto diverse forme e stagioni. Attualmente, con la scelta operata dall’attuale governo di ritornare ai voti, si corre il grosso rischio di tornare a una valutazione selettiva e discriminante nell’intero primo ciclo di istruzione. Il fatto che l’innalzamento dell’obbligo fino ai 16 anni di età possa effettuarsi non solo nell’istruzione, come si è scelto con lo scorso governo, ma anche nella formazione professionale, costituisce un vulnus che tenderà ad abbassare i livelli di conoscenze e di competenze dei nostri giovani. Il voto costituirà il volano per orientare i nostri quattordicenni all’istruzione o alla formazione professionale: un ritorno alla scelta operata dalla Moratti.





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Maurizio Tiriticco