Compiti a casa, cambiare prospettiva

La pubblicazione di ricerche e articoli, sulla questione dei compiti a casa ha riacceso il dibattito con prese di posizione talora totalmente divergenti tra loro (recentemente sul Corriere della sera per l’impatto che hanno sui genitori). Spesso si parla di studenti di scuola superiore, ma tuttora, nella maggior parte dei casi, si danno compiti anche agli alunni della scuola primaria e media. È su questi due livelli di scuola che intendo concentrare l’attenzione evitando posizioni manichee, non adeguate quando si tratta di apprendimento e di formazione, per affrontare il tema con alcune considerazioni sul perché dare o non dare compiti a casa, per chi e come.
Nella maggior parte dei casi, i compiti uguali per tutti gli alunni sono coerenti con un modello d’insegnamento prevalentemente frontale che prevede la spiegazione, l’esercizio in classe per verificare se gli alunni hanno compreso davvero quello che dovranno imparare, l’assegnazione dei compiti a casa (studio più esercizi), la successiva correzione dei compiti e/o le domande/interrogazione per finire con il compito in classe dopo un certo numero di lezioni. Questo percorso ha una sua logica ferrea e, quando viene seguito dagli alunni, i risultati di apprendimento scolastico (ho qualche dubbio su quelli formativi) sono in genere positivi. In questa sede non intendo affrontare le dinamiche relazionali che si mettono in moto nelle famiglie sull’impegno a casa dei propri figli, ma piuttosto descrivere sinteticamente cosa ci dice l’esperienza sul versante dell’efficacia per l’apprendimento e per la formazione se si segue il modello d’insegnamento di tipo frontale.

I genitori e i compiti
Ho avuto modo di verificare che i genitori si suddividono ,grosso modo, in tre grandi categorie di atteggiamenti nei confronti della scuola. La categoria più rara è quella dei genitori con il figlio “perfetto”, ovvero quello che è autonomo, che prima studia, poi fa i compiti, poi gioca o fa qualche altra attività esterna. In questo caso il genitore si limita ad approvarlo e a esserne orgoglioso. Un po’ più numerosa la categoria del genitore “perfetto”, almeno per la scuola, che segue il proprio figlio a casa. La categoria dei genitori che “non seguono” il proprio figlio è invece molto numerosa e articolata e si prende spesso rimproveri più o meno velati da parte dei docenti. Si può trattare di genitori che semplicemente hanno orari di lavoro impossibili, genitori non conviventi i cui figli passano alcuni giorni della settimana in case differenti, genitori che hanno scarsa dimestichezza con le cose scolastiche e stentano a capire le richieste fatte dagli insegnanti (sono più di quanti si potrebbe immaginare), genitori non italofoni, genitori che, più semplicemente, pensano che l’apprendimento scolastico dei propri figli dovrebbe essere demandato tutto alla scuola. C’è da notare che quest’ultimo modo di pensare, da noi nettamente minoritario e formalmente condannato, è considerato ovvio in altre latitudini.

Gli insegnanti, gli alunni e gli effetti visibili dei compiti a casa

Ogni insegnante sa che l’impegno produttivo e duraturo in qualsiasi attività nasce dalla motivazione, ma dovrebbe tener anche presente che qualsiasi azione ripetitiva tende a demotivare. Sa inoltre che un’attività impegnativa come l’apprendimento non procede in maniera lineare aggiungendo un pezzettino alla volta, come invece si propone nel richiedere un impegno quasi quotidiano con i compiti a casa.
Se si esclude la categoria dell’alunno “perfetto” o affiancato dal genitore tutor, tutti i docenti, ma anche i genitori, sanno benissimo quali sono gli effetti collaterali negativi. Elenco i più comuni a partire da quelli meno deleteri per la formazione degli alunni e per il loro rapporto con l’apprendimento scolastico: fare i compiti scritti senza avere studiato, copiare i compiti, inventare scuse più o meno plausibili per non averli fatti, sperare nella buona sorte, dichiarare che non si è fatto il compito perché non se ne aveva voglia (dimostrazione di coraggio di fronte ai compagni), dimostrare assoluto disinteresse e disprezzo, anche verbale, per la richiesta “assurda” dell’insegnante (traduzione: “che c’entro io con la scuola?”).

Le prospettive

Forse alcuni esercizi ripetitivi sono un allenamento necessario in alcune fasi dell’apprendimento, ma credo che sarebbe più opportuno che questi fossero svolti in classe con un immediato raffronto tra gli alunni e riflessioni a caldo sugli errori. Ritengo però che si possa provare a uscire dalle situazioni che presentano i rischi fin qui esposti provando a cambiare il modo di organizzare l’apprendimento delle materie scolastiche, sviluppando percorsi più esplorativi, producendo apprendimenti come in un laboratorio dove gli alunni imparano anche a collaborare nell’ottica di riuscire, quando saranno più grandi, a lavorare in equipe mettendo in relazione produttiva le proprie capacità con quelle di altri. Esistono da tempo molti esempi che vanno in tale direzione nelle scuole. Su questa linea, in una prospettiva equilibrata e più adeguata ad affrontare la situazione reale piuttosto che a lamentarsi di fenomeni che si considerano negativi, si possono sviluppare gradatamente approcci all’apprendimento più cooperativi, situazioni in cui l’insegnante è insieme regista delle attività e coach di tutti gli alunni per fare in modo che l’impegno a casa avvenga su percorsi consigliati dall’insegnante, effettivamente gestibili dagli alunni, ma, soprattutto, liberamente scelti nel gruppo di pari secondo le necessità definite nel gruppo stesso e le possibilità che ciascun componente pensa di avere per dare il proprio contributo.

Per approfondire vedi l’articolo in formato esteso: “L’annosa questione dei compiti a casa

***
Immagine in testata di CG Magazine

Carlo Testi