C’era una volta…

C’era una volta la pedagogia progressista. Non ne faccio, o meglio, non ne faccio soltanto una questione accademica, di un punto di vista “dotto” sull’educazione che ieri era in auge e oggi no. Mi riferisco piuttosto a qualcosa di più corposo ed esteso: il comune sentire nel quale si è riconosciuta per un bel tratto di tempo (grosso modo l’ultimo trentennio del secolo scorso) una parte significativa dei docenti, dei dirigenti e degli amministratori scolastici italiani, e pure dei genitori e degli stessi studenti.

Con un’espressione volutamente démodé si potrebbe dire che quella pedagogia deteneva l’egemonia culturale in ambito educativo, ad essa facendo riferimento resoconti e confronti gazzettistici o televisivi, ogniqualvolta fossero in gioco problemi attinenti la scuola.

Una tale concordanza poggiava su un principio al quale tutti erano disposti ad attribuire veridicità e solidità: il principio che faceva dell’esperienza scolastica una risorsa fondamentale per il processo di democratizzazione del sapere e di ampliamento dello spirito civico.

Da lì veniva la spinta a proiettare uno sguardo ottimistico verso il futuro e a investire su progetti, atti e comportamenti del presente che si auspicava preludessero per un verso a un ampliamento e per un altro a un miglioramento delle pratiche della scolarizzazione. Coerentemente con tale assunzione si puntava non solo a spostare verso l’alto l’età di uscita del giovane dall’esperienza di formazione, ma anche a ridefinire la qualità stessa di tale esperienza.

Sul piano dell’impianto generale si mirava a rendere la prima fase della formazione più solida e organica di quanto non era stata nella tradizione e la seconda fase meno dispersiva e socialmente discriminante di quanto non risultava dall’impianto ereditato dal passato: e questo era quanto si cercava di ottenere operando in vista dell’obiettivo (non sprovvisto di elementi mitologici) di “riformare la scuola”, riqualificandone a un tempo il disegno culturale d’assieme attorno ai profili del sapere linguistico-letterario, di quello storico-sociale e di quello scientifico-tecnologico.

Sul piano degli interventi di settore, poi, si operava su una serie di zone considerate “critiche”. E di fatto non v’era chi apertamente contestasse (o giudicasse poco coerente con il principio di cui s’è detto) l’esigenza di incrementare gli spazi di gestione autonoma delle scuole (sottraendole ai vincoli dell’adempimento formale, tipici dei sistemi rigidamente centralistici), o quella di innovare i modi della presentazione e della resa didattica delle discipline universalmente considerate più ostiche (quelle, per intenderci, che si rifanno al sapere scrittorio e grammaticale, o a sapere matematico e scientifico); per non dire poi del convergere di molti sull’esigenza di puntare a un processo di ammodernamento delle strumentazioni e delle metodologie della didattica (facendo giustizia di apprendimenti troppo rigidamente libreschi e puntando a interventi più organici, razionali, differenziati), o sull’impegno ad attribuire più attendibilità alle procedure della valutazione (sottraendole per un verso alla falsa univocità del voto e per un altro verso alla rigidità di soluzioni apparentemente oggettive, ma viziate da non poche presupposizioni). A questo fervore interno fungeva da sostegno una serie di interventi di contesto, miranti a rendere il profilo della scuola più solido e integrato nel tessuto della città (per un verso corresponsabilizzata rispetto all’obiettivo della gestione e per un altro direttamente coinvolta, nelle sue articolazioni universitarie e aziendali, in ordine al compito di definire e sostenere le dimensioni culturali e professionali della docenza). Si guardava fiduciosamente al futuro della scuola, e se ci si divideva lo si faceva per questioni marginali, senza che venisse intaccata una tale comune fiducia sugli anni a venire.

Questi anni sono venuti, di fatto, ma il quadro risulta ora profondamente modificato, al punto che si rende necessario riconoscere e denunciare la scomparsa di quel modo di pensare (e di agire). Gli accenti del presente sono profondamente difformi da quelli, anche sul piano etico e politico, per non dire di quello estetico (non c’è bisogno di portare esempi, no?). Si direbbe che la pedagogia del presente sia di matrice regressista: non guarda più al futuro con speranza, ma volge il suo sguardo al passato, rimpiangendolo; e si tratta di quel passato che la cultura progressista aveva messo fortemente in discussione. Oggi, quella cultura è silente, afasica. Come mai?

Le risposte possibili sono molte. Ma fanno capo sostanzialmente a due linee di interpretazione. La prima vede nella crisi di quel pensiero l’effetto della “vittoria drogata” che il pensiero regressista si sarebbe assicurata soprattutto tramite il sostegno avuto dai media e da un’opinione pubblica sensibile a rappresentazioni fortemente semplificate dello scenario scolastico (del tipo “si ridia serietà agli studi”). La seconda individua all’interno della cultura progressista delle debolezze costitutive che il tempo e la limitatezza dei risultati raggiunti sul campo avrebbe portato alla luce: per esempio, il non aver fatto seriamente i conti con la modernità, tantomeno con ciò che comunemente si intende per postmodernità; o non essere riuscita a comporre le sue due anime, quella primaria e quella secondaria, permettendo che l’una scivolasse nel populismo e l’altra nel licealismo; o ancora, l’essersi sottratta al compito di misurarsi con i nuovi e sempre più pervasivi regimi della comunicazione.

Scegliere la prima via equivale a mettersi da parte, e aspettare che giri il vento (se mai questo avverrà). Impegnarsi nella seconda significherebbe, comunque, dare testimonianza di una cosa tanto semplice quanto essenziale: che quella pedagogia non è (del tutto) scomparsa.

Per rimanere in contatto con l’autore:
• il sito del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive dell’Università Roma Tre
• la video intervista a cura di Carlo Nati


Roberto Maragliano