Italiano: lingua, letteratura, conoscenze, competenze

Dunque non sono più solo i professori universitari a segnalare con allarme la scarsa padronanza linguistica di tanti nostri giovani diplomati. La seconda rilevazione su un campione di elaborati di italiano degli esami di stato 2010, condotta da Invalsi con la collaborazione scientifica dell’Accademia della Crusca, conferma il quadro che si era profilato con la prima. Quadro, bisogna ammetterlo, scoraggiante. In tutte e quattro le competenze fondamentali – testuale, grammaticale, lessicale-semantica, ideativa – il 54% degli studenti non raggiunge la sufficienza. Il professor Sabatini, presidente onorario dell’Accademia e coordinatore della rilevazione, in una recente intervista si dichiara certo della scientificità dei risultati. Metodi e criteri adottati, infatti, allontanano il dubbio di un’applicazione “purista” degli indicatori. E deve rassicurare sull’indipendenza della valutazione il fatto che siano stati cambiati i valutatori dalla prima alla seconda rilevazione e che i 545 elaborati siano stati analizzati da gruppi di esperti che hanno lavorato in modo separato.

Ma cosa c’è dietro quel valore medio del 54%? Intanto le immancabili differenze tra i tre comparti dell’istruzione secondaria superiore. Gli insufficienti sono il 34% nei licei, il 67% nei tecnici, l’80,5% nei professionali e, calcolando gli “appena sufficienti” (rispettivamente il 41, il 25, il 14 per cento), ad avere una buona padronanza linguistica nei licei sono solo il 25%, nei tecnici, l’8%, nei professionali il 5,5%. Davvero troppo poco al termine di almeno tredici anni di scuola in cui all’insegnamento dell’italiano vengono sempre dedicati sufficienti spazi temporali e in cui l’italiano scritto viene diffusamente utilizzato anche per numerose altre discipline. Non solo. Anche chi padroneggia meglio la lingua, ha un lessico più ricco e accurato e buone capacità di ideazione e organizzazione del testo, rivela spesso consistenti difficoltà a usare correttamente e in modo pertinente la punteggiatura. Secondo Sabatini, questa è una delle prove che a un certo punto – dopo la media, già nella media? – la scuola non contribuisce più granché a far evolvere ulteriormente le competenze linguistiche maturate dentro e fuori dai contesti scolastici, in famiglia e in altri ambiti. Ne prende atto, come di un dato di fatto originato da un mix di doti naturali, provenienza socioculturale, forse anche storia scolastica, e passa ad altro. Cioè allo studio della letteratura, così gremito di autori – come evitarlo, nella tradizionale impostazione storicista della materia? – che diventa molto difficile, se non impossibile, lavorare in profondità sui testi. Con risultati, si potrebbe aggiungere, doppiamente negativi, sul versante culturale come su quello linguistico. È un fatto, comunque – anche questo emerge dalla rilevazione Invalsi-Crusca – che nella scelta tra le diverse tipologie di prove previste per gli esami di Stato, sono pochi gli studenti che decidono di misurarsi con l’analisi del testo, probabilmente perché non si è lavorato abbastanza in questo senso, e forse anche perché c’è un certo timore a farlo con un testo che non sia già noto. Ma anche quando la scelta cade sul “saggio breve”, i testi proposti come tracce o fonti sono di solito poco o male usati: in gran parte dei casi ci si limita a riferimenti fuggevoli, più che altro pretesti per introdurre la solita dissertazione libera, o liberamente retorica, sul tema; in altri vengono assemblati senza un minimo di approccio critico.

Anche da questa rilevazione, insomma, emergono elementi che richiederebbero riflessioni, analisi generali e di dettaglio, e l’elaborazione di proposte concrete di varia natura. Il professor Sabatini, per esempio, mentre apprezza che nelle Indicazioni per la scuola secondaria superiore si faccia finalmente strada la necessità che l’insegnamento della lingua sia permanente, per lo meno per evitare alibi a una didattica troppo schiacciata sullo studio della letteratura e per spingere l’editoria scolastica a produrre testi adeguati, richiama anche l’importanza di una formazione linguistica e glottodidattica nella preparazione universitaria degli insegnanti e nei concorsi per l’accesso all’insegnamento. Critiche analoghe al peso eccessivo di uno studio della letteratura che di solito trascura il valore educativo e linguistico dell’analisi del testo vengono dal professor Serianni, ordinario di storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma, che suggerisce l’utilizzo anche nell’insegnamento dell’italiano degli esercizi mirati (i test discreti, come li chiama la glottodidattica) sulla punteggiatura, i connettivi, il lessico astratto che si usano per l’insegnamento delle lingue straniere e dell’italiano lingua 2. Piste concrete e utili a superare il diffuso giustificazionismo di chi spiega i risultati scadenti con la solita demonizzazione di sms e twitter, internet e televisione o, in modi più colti, con l’espansione trionfante dell’oralità anche in domini tradizionalmente riservati alla scrittura. Tutto vero, ma non è con l’evoluzione degli usi della lingua e delle forme di comunicazione che la scuola dovrebbe misurarsi? Sullo sfondo, e fuori dalle tante astratte o ideologiche contrapposizioni di questi giorni, una discussione seria sull’apprendimento della lingua italiana potrebbe dare ottimi contributi a superare l’insulsa diatriba tra conoscenze e competenze. Forse in nessun campo come in quello della padronanza linguistica è infatti così evidente che non può esserci apprendimento se non nell’intreccio indissolubile e funzionale di entrambe.

Fiorella Farinelli