Strategie d’integrazione a scuola – Le strade dell’educazione interculturale – di Fabio Rocco

Fino agli anni ’90 l’integrazione per gli alunni figli di famiglie migranti nelle scuole americane era oggetto di provvedimenti legislativi ma questo interessava solo gli alcuni Stati che avevano da tempo un imponente flusso migratorio (come California, Texas, Florida, New York); prima di quel periodo il governo federale non aveva focalizzato l’attenzione sugli studenti provenienti da famiglie non statunitensi. A seguito degli spostamenti interni legati alla recente crisi economica, la loro presenza nelle scuole negli ultimi anni è si è diffusa a macchia d’olio aumentando proporzionalmente in tutti gli Stati.

La situazione attuale vede una diffusione della fascia 0-6 anni su tutto il territorio statunitense attestando ad oltre 5 milioni il numero dei figli di genitori non nati negli USA. Gli EL (English Learner) inseriti nel percorso pubblico di studi dell’obbligo sono invece 4,8 milioni, pari al 9,8% di tutti gli studenti (fonte: NCES, Digest of education statistic 2016). 

Ne è quindi derivato che l’intervento in quest’ambito non poteva più essere lasciato ai singoli Stati: il Governo Federale si è quindi adoperato per far raggiungere il successo scolastico a una più ampia fetta di popolazione studentesca.

I fondi nazionali stanziati per la scuola dal governo statunitense già dagli anni ’90 non hanno coperto solamente gli interventi di carattere sociale più che educativo, quali gli quelli compensativi rivolti agli studenti in difficoltà, sono stati infatti altresì rilevanti gli interventi federali legati all’acquisizione delle competenze linguistiche per gli EL che, nel tempo, hanno aiutato ad innalzare dall’8% al 38% la percentuale di coloro che superano i test di lingua.

Ma ciò non basta, non secondo Secondo Margie Mc Hugh, dirigente del Migration Policy Insitute, la quale segnala che la media dei diplomati tra gli EL è ferma al 65%  contro la media nazionale che che si attesta invece all’83%.

In Italia gli studenti privi di cittadinanza inseriti nel sistema scolastico pubblico sono circa 815.000 (fonte: C.Borromini, G. De Sanctis, Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano, Istat/Miur, Roma, 2017), il 9,2% del totale. Nella primaria troviamo il numero più elevato: 297 mila, il 10,6%. Nell’anno scolastico 2015/2016 gli alunni neo-arrivati nelle nostre scuole sono stati circa 34 mila. Nell’ultimo quinquennio sono 193.000 in meno gli studenti con cittadinanza italiana complessivamente iscritti al sistema scolastico, gli studenti privi di cittadinanza, invece, sono 59.000 in più. Nello stesso quinquennio coloro che hanno cittadinanza non italiana, ma sono nati in Italia sono passati da circa 335 mila a 480 mila con un incremento del 43,2%. Molti, soprattutto tra coloro che sono nati nel nostro Paese, frequentano i licei e concludono i percorsi d’istruzione universitaria, ma poi si scontrano più dei loro colleghi cittadini italiani con il fenomeno dell’overeducation – l’eccesso di laureati non assorbiti dal mercato del lavoro. L’Italia infatti ha un tasso complessivo di overeducation del 19,9% tra i cittadini italiani, valore già estremamente elevato, ma tra i migranti con titolo di studio universitario esso raggiunge il 65,9% (Rapporto immigrazione 2016, Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, 2016).

Questi dati mettono in luce un elemento comune e due differenze tra il sistema formativo italiano e quello statunitense. L’elemento comune riguarda una tendenza a generalizzare gli alunni migranti (che invece rappresentano percorsi di avvicinamento alla scuola molto diversi tra loro): nativi o istruiti nel Paese di immigrazione, giunti nel corso della scuola primaria o secondaria, attraverso percorsi regolari o meno, per ricongiungimento familiare o non accompagnati, come rifugiati in fuga da un conflitto o per ragioni economiche. Questa pluralità di processi necessiterebbe di un altrettanto ampia gamma di interventi differenziati.

Se guardiamo le differenze, la prima è relativa al fatto che, contrariamente a quanto avviene in Italia, gli interventi federali americani sono fondati sull’investimento nella formazione individuale con l’obiettivo di ottenere da tutti il meglio, perché questo è un vantaggio per la Nazione.

La seconda discriminante è che in Italia la rilevazione statistica, così come l’esito concreto nel destino individuale degli studenti, ha come parametro di riferimento la cittadinanza. Appare evidente come in realtà dentro la categoria “studenti privi di cittadinanza” ci siano bambini e ragazzi nati e istruiti nel nostro Paese alla stregua di alunni arrivati in età  scolare, senza distinzione tra i diversi percorsi migratori ed i conseguenti livelli d’istruzione e vissuti individuali. Nella realtà scolastica la distinzione tra “cittadini e non”, risulta inesistente, tanto che per gli insegnanti, gli studenti e le famiglie la percezione della “diversità” dal punto di vista didattico, ma anche nelle relazioni sociali, è data quasi esclusivamente dalla mancata conoscenza della lingua italiana.  Visto che questo è un elemento che marca il confine della diversità, si dovrebbe rendere più rapida la conoscenza della lingua per ridurre i tempi di inserimento sociale e i rischi della “stigmatizzazione”. Come? Promuovendo le esperienze di bilinguismo, incentivando l’insegnamento delle lingue straniere a partire dalla scuola dell’infanzia, aiutando la partecipazione attiva dei genitori di origine straniera nell’apprendimento di un’altra lingua in classe e allo stesso tempo costruendo percorsi di apprendimento della lingua italiana per i genitori migranti meno alfabetizzati, anche con lezioni comuni nelle classi dei figli. La lingua è strumento di comunicazione e relazione, crea ponti e getta basi di convivenza quando si è in grado di usarla correttamente. I genitori sono i primi e più influenti maestri dei figli. Per questo aumentare il raggio delle azioni educative in ambito linguistico è  un fondamentale strumento di integrazione per la scuola.

 

Fabio Rocco