La nuova manomissione delle parole. Recensione del libro di Gianrico Carofiglio

Questo libro è un atto politico[1], così Gianrico Carofiglio definisce il secondo atto della sua interessante riflessione sul linguaggio. Dopo undici anni ha ritenuto maturi i tempi per riprendere in mano, rimodulare, storicizzare e aggiornare il suo saggio di successo La manomissione delle parole, regalando ai lettori un nuovo libro con una schietta dimensione politica ed etica. Allo stesso modo della prima versione del testo, scritta in concomitanza con la stagione del berlusconismo, anche La nuova manomissione delle parole nasce come un’urgenza e un dovere dell’etica civile, in un momento «di ulteriore indebolimento della qualità della vita democratica, caratterizzato da nuove torsioni del linguaggio prodotte dall’avanzata populista. »lo attuale è un momento in cui viviamo immersi, più o meno consapevolmente, negli slogan di un lessico degradato nei contenuti e basso nel registro linguistico, che scivola non di rado nell’insulto e nel turpiloquio, in un clima comunicativo  tossico per la qualità della vita democratica.

Carofiglio si ritrova pienamente in linea con le affermazioni del filosofo americano John Searle, secondo il quale il primario contratto sociale di una comunità è la fiducia in un linguaggio condiviso; quando pertanto questa fiducia si attenua perché le parole vengono usate in maniera impropria, per sciatteria o per dolo, si perde fiducia nelle istituzioni e la democrazia diventa più debole. Con questo libro intende dare pertanto un nuovo e personale contributo ad arrestare lo smottamento della qualità della vita democratica, nel nostro Paese e anche altrove.

Ne La nuova manomissione delle parole viene salvaguardato l’impianto originario del testo, che non è quello di un saggio di filologia o di linguistica, ma piuttosto uno strumento per far riflettere come, specie in politica, qualcuno persegua un modo di imporre le proprie idee e la propria verità attraverso un uso improprio e deliberatamente manipolatorio delle parole. Le parole vengono a volte svuotate di «senso e vengono trasformate in bozzoli vuoti, in oggetti contundenti o in micce usate per appiccare veri e propri incendi di rancore». Nei casi più gravi la manipolazione dei significati è addirittura la premessa di pratiche razziste xenofobe, o criminali. Il libro è integrato, modificato, aggiornato e anche ampliato, riscritto in altri termini con lo scopo di renderlo uno strumento utile per capire almeno una parte  del presente. Una esortazione ferma e argomentata a prendersi cura delle parole, che, come ricorda anche Zagrebelsky  nel suo «decalogo dell’etica democratica», sono gli strumenti per eccellenza del dialogo democratico[2]. Riassumendo in uno slogan: poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia.

Manomissione significa, infatti, danneggiamento, deformazione, inganno, logoramento, grave svuotamento e perdita di significato delle parole, con conseguente perdita di aderenza ai concetti e alle cose. Nel diritto romano, però, la parola veniva usata per indicare la cerimonia di liberazione dello schiavo, con l’imposizione della mano sulla spalla da parte del padrone. Carofiglio non si limita a indignarsi e ribellarsi verso il fenomeno di manipolazione del lessico civile piegato a un uso strumentale e snaturato nella sua funzione, ma approccia la questione in modo costruttivo, mostrando la possibilità che le parole ritrovino il loro significato autentico. Per esercitare pienamente i propri diritti di cittadinanza democratica è necessaria «la cura, l’attenzione, la perizia da disciplinati artigiani della parola non solo nell’esercizio attivo della lingua – quando parliamo, quando scriviamo – ma ancor più in quello passivo: quando ascoltiamo, quando leggiamo».

Parole precise e dirette, ricchezza delle parole come ricchezza di possibilità per il dialogo democratico, in quanto «l’abbondanza delle parole e la molteplicità di significati sono strumenti del pensiero, ne accrescono la potenza e la capacità critica».

In particolare l’Autore si propone di giocare con alcune parole, di scegliere un manipolo di parole primarie ed elementari, che appartengono al linguaggio comune, e che spesso risultano svuotate di senso, e di cimentarsi nel tentativo di smontarle e poi riempirle, «per restituire loro vita, renderle, secondo l’espressione del filosofo francese Brice Parein, “pistole cariche”»., per disvelarne la valenza di parole politiche. Per questa operazione di smontaggio e ricostruzione sceglie in tutto sei parole, anzi sette: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta e infine popolo, forse la più manomessa nell’ultimo decennio, a cui affianca la parola comunità.

Giochi di sconfinamenti

Grazie a un gioco di sconfinamenti, un incastro metanarrativo, tra riflessioni di carattere etimologico, un’antologia anarchica di brani letterari di autori e autrici di diverse epoche storiche, senza tralasciare i filosofi classici, una panoramica su provvedimenti di legge, riferimenti alla nostra carta costituzionale scorgiamo il filo rosso che lega queste parole l’una all’altra in un itinerario concettuale, a partire dalla vergogna, come consapevolezza di avere violato un codice etico ed estetico interiore, ancora prima che sociale. Chi è incapace di provare vergogna, infatti, rifugge anche la giustizia nei modi più vari. E se consideriamo la giustizia, nella sua accezione etica e umanistica, non come semplice uguaglianza formale  di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma come uguaglianza sostanziale delle loro opportunità nella vita, ecco palesarsi il nesso tra disuguaglianza e ribellione, come esperienza di non rassegnazione all’ingiustizia e di affrancamento da una condizione di disuguaglianza e di perdita di dignità. In questa accezione la ribellione è la via per la bellezza, a sua volta intesa con una funzione etica come giustizia, bene morale. L’etica e l’estetica non sono mai disgiunte, in quanto non può esistere bellezza senza valori morali, senza la capacità di scegliere per la propria vita un progetto che contempli quotidianamente un’osservazione critica del reale e pertanto metta in gioco il diritto di scegliere e la capacità di scelta, «cioè chi sceglie cosa, per chi e in base a quali criteri». La scelta raccoglie in sé anche tutti gli altri lemmi fin qui esaminati, sia per quanto concerne la nostra sfera più privata, sia per come sappiamo aprirci al mondo esterno e alla relazione: «Scelta può essere di volta in volta – o insieme – ribellione non violenta, ricerca della giustizia, pratica etica della bellezza e dell’eleganza, salvezza dalla vergogna. E ancora: capacità di disobbedire agli ordini ingiusti e inumani, capacità di sottrarsi al conformismo, capacità di non dare nulla per scontato, di praticare l’arte del dubbio, di sfuggire ai vincoli e alla prepotenza delle verità convenzionali, anche quando questo può costare molto caro»[3]. La capacità di argomentare pro o contro una tesi è una fondamentale virtù civile.

Se è vero, come è vero, che il dubbio e il libero dibattito nel pluralismo dei punti di vista sono la linfa vitale della democrazia, un popolo nella sua accezione democratica non può che essere una comunità di persone che hanno molte cose in comune, ma anche molte non in comune e che sono inclini a sentire solidarietà per l’altro, anche se diverso da loro. Non esiste il popolo come entità monolitica e monocratica del discorso populista. Ciò che è in comune rende comunità, nell’alternanza tra doveri e doni, in una dimensione di gratuità solidale, di solidale convivenza: «Comunità è un concetto frattale. Una comunità si può comporre di soli individui nelle sue forme più elementari (famiglie, piccole associazioni), come di individui insieme ad altre comunità diverse, ma integrate tra loro, nelle sue manifestazioni via via più complesse. Come accade per le comunità sui territori, fino alla comunità nazionale e alle comunità internazionali, fino al concetto, audace e decisivo per la sopravvivenza della specie e del pianeta, di comunità umana»[4].

La povertà della comunicazione si traduce in povertà dell’intelligenza, doloroso soffocamento delle emozioni. Le parole sono aspetto fondante e strutturale per cambiare il mondo. Ecco perché una scuola sensibile all’insegnamento per tutti delle parole e alla coltivazione di una ricchezza di parole e sistemi metaforici,  di qualità semantica coerente con la loro forza originaria e aderente a un sistema di valori, è condizione di democrazia.

[1] G. Carofiglio, La nuova manomissione delle parole, Feltrinelli, 2021; G. Carofiglio , La manomissione delle parole, Rizzoli, 2010.

[2]G. Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi 2007, pp. 15-38.

[3]G. Carofiglio, Op. cit., p.90.

[4] G. Carofiglio, Op. cit., p.105.

 

Rita Bramante Già Dirigente scolastica, membro del Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della Musica