L’educazione ai tempi della crisi

In questa ripresa delle attività formative, mi riferisco tanto all’apertura dell’anno scolastico quanto all’inizio dei corsi accademici, è avvenuto un fatto molto grave e irreparabile, di cui un po’ tutti siamo consapevoli, ma che teniamo relegato in un angolo remoto del nostro cervello. Forse lo temiamo, forse abbiamo timore a confessarlo persino a noi stessi, forse, con il più tipico dei meccanismi di difesa freudiani, l’abbiamo semplicemente rimosso. I nostri problemi, i problemi di tutto il comparto dell’istruzione e della cultura, sono stati assorbiti entro le fauci enormi della crisi. E sono diventati una goccia nel mare.

La nostra attenzione non può esimersi, in questi giorni, dal ragionare di bond e di spread, di pensioni di anzianità e di debito pubblico; e, in definitiva, di tagli, di tagli e di altri tagli ancora. E così, con che forza, più ancora, con che faccia chiedere per l’istruzione? Chi se la sente più di rivendicare alcunché, in un Paese che va a rotoli? Stiamo zitti, per ora, poi si vedrà, forse verranno tempi migliori, peggiori è difficile. Chi segue da vicino i movimenti di protesta nei confronti della politica portata avanti da questo governo sulla cultura questa atmosfera la vive, la sente di pelle, anche se non la porta in superficie, fino all’espressione compiuta che deve entrare nello stampino della sintassi, là dove i significati reconditi divengono quanto meno intersoggettivi, se non oggettivi.

Il primo pensiero che vorrei proporre, nella speranza di un recupero del morale (posto che quello del suo femminile, la morale, pare impraticabile allo stato attuale), è il rivendicare un primato, una primogenitura, un record dirò, tanto per gratificare l’ANVUR: non dobbiamo forse parlare in inglese? Ebbene, diciamolo con orgoglio: noi nei tagli siamo arrivati primi, abbiamo sbaragliato la concorrenza, abbiamo distanziato chiunque. La scure di Tremonti e di Gelmini ha pensato a noi con cura e con zelo indefessi quando della crisi non si parlava nemmeno; a essere precisi, addirittura quando si parlava di questo o di quel “tesoretto”, mentre i conti pubblici erano “in ordine”. Ebbene, dobbiamo avere l’orgoglio di dire che noi abbiamo portato la spesa per la ricerca e l’istruzione a livello di terzo mondo, con oculata preveggenza, ben prima di ogni sentore di crisi, andando a occupare quel posto di ultimo Paese dell’OCSE per questo genere di spese che tutto il mondo ci invidia.

Cosa c’entriamo noi ora, con la crisi? Qui non ci differenziamo dagli altri, nel senso che subiremo i nuovi tagli pro quota, linearmente (si fa per dire: sotto una certa linea, perché sopra c’è il bengodi di chi nulla paga, o, anzi, con la crisi si arricchisce). Ma non potranno più spolpare, perché di carne non ce n’è più, c’è già stato chi l’ha divorata: ora bisogna segare le ossa.

Che fare, al di là dell’ennesimo cahier de doléance? (be’, sì, a volte potremmo anche parlare in francese, l’ANVUR ci perdonerà). Come dovrebbe reagire, in positivo, il mondo della cultura? Ecco, non ci si crederà forse, ma, al solito, c’è tanto da fare. Le crisi appartengono alla storia. “Crisi” è parola greca, significa prima di tutto, alla lettera, ‘separazione’, dal verbo “krino”, ‘separo’ appunto; ma anche ‘giudico’, da cui “critica”. E da qui ci si può aprire a un’ampia serie di traslati più ampi, da ‘svolta’ a ‘giudizio’, fino al “criticismo kantiano” e a tanto altro ancora. “Crisi” è anche termine tecnico della medicina, nella tradizione medica antica è il punto di decisione, quello in cui si prende la via della guarigione oppure della morte. Forse, azzardo, l’intellettuale dovrebbe in questo frangente dire la sua, e non aspettare supinamente che si verifichi che la scelta per la morte si compia.

Che fare a scuola, all’università? Credo che due cose si presentino come dovere morale e ineludibile. La prima è l’opera di alfabetizzazione. Dal barbiere o nei bar si trovano molte persone che saprebbero come uscire dalla crisi. Ma facciamo un esperimento (tranquilla, Sig.ra Ministro, mentale: non spendo nulla dei fondi dello Stato): chiediamo ai primi dieci passanti che cos’è il disavanzo primario, o la differenza tra il bid-ask spread e il credit spread (qui l’ANVUR gongola), o come si misura il PIL, o il GDP per gli USA. Non finisco il discorso perché lo spazio è poco e i miei lettori molto intelligenti. Nella scuola si studiano tecnicalità, ma non i fondamentali del pensiero economico, da un punto di vista filosofico in specie. E all’università, in qualsiasi corso di economia, si danno per scontati. Con il bel risultato che ciascuno parla di ciò che non sa. Conclusione: anche qui c’è bisogno di cultura, c’è bisogno, prima di tutto, di capire, c’è bisogno di tutorials. E dove, se non a scuola?

Il secondo compito è molto più impegnativo, e ne potrò fare solo un accenno. Da Bacone dovremmo avere imparato, come primo esercizio del pensiero critico, a smascherare gli idòla, a vaccinarci contro i pre-giudizi. Al momento attuale numerosi enunciati ci vengono propinati come verità assiomatiche. Ben pochi sono consapevoli che si sono date e si danno teorie del tutto alternative rispetto a essi. Mi limiterò a un unico, paradigmatico esempio. Si assume il così detto “mercato” come giudice infallibile. Vi è un vizio logico di fondo: si assume il mercato come unità di misura, e poi si riscontra a posteriori che il mercato ha ragione. Bella forza. Le idee neoliberiste hanno fatto ampia breccia nella politica di sinistra, e le leggi dell’economia classica sono parse non più passibili di discussione dalla caduta del muro di Berlino in poi. Qui temo di essere frainteso, e allora dirò esplicitamente che non sto testimoniando alcuna nostalgia verso tutto ciò che nacque e prosperò al di là di quel muro. Ma da ciò consegue davvero la necessità logica dell’antagonismo e in ultima analisi dell’homo homini lupus? Ecco, forse per l’intellettuale c’è qualche problema da affrontare.

Maurizio Matteuzzi