Dono del presente, scommessa per il futuro

Presentiamo di seguito la recensione di un libro appassionato di uno straordinario scrittore, coraggioso docente militante nelle zone del disagio, Via dalla pazza classe è anche (forse soprattutto) una innovativa proposta pedagogica – sulla scia dell’amato Don Milani – e, insieme, preziosa riflessione complessiva sui limiti e le prospettive della scuola italiana oggi.

La redazione

Via dalla pazza classe (Mondadori 2019) è, anzitutto, la confessione appassionata e sincera di una vocazione che Eraldo Affinati avverte, “puntando un faro dentro se stesso”, per la pratica dell’insegnamento la quale ha significato immediatamente scoprire una propria identità, “accettare la finitudine” e, in equilibrio fra consapevolezza della tradizione e tensione progettuale, consegnare, al di là della nozione, “vertigini positive” al sorriso di un alunno che bisogna saper guardare negli occhi con fiducia e spontaneità (“vegetazione affettiva ideale per aggirare pregiudizi ed equivoci educativi”) evitando il diffuso, narcisistico meccanismo teatrale-istituzionale della finzione pedagogica per sciogliere i grovigli, allentare le tensioni, superare i contrasti, mettendo in conto “ritardi, atrofie, negligenze, noia” e da parte indecisioni, titubanza, autoreferenzialità.

Chi accetta/sceglie il “Mestiere dei fiaschi” (splendido il capitolo, pp. 47-48) “offre a tutti le maschere poi le stacca dal volto, disegna e cancella, scolpisce e distrugge, prova le voci, evoca i fantasmi” e, “artigiano del tempo”, vero specialista dell’avventura interiore (prima che di competenze disciplinari), esplora il passato, ricompone il presente ed elabora il domani. In questo senso il libro costituisce una straordinaria riflessione complessiva sul villaggio educativo italiano, troppo spesso precettistico, competitivo, autoritario, pedantesco, non luogo deputato alla trasmissione della conoscenza e della cultura ma sede istituzionale per misurazioni, valutazioni, esperimenti docimologici, prove oggettive che si traducono in “caricatura della meritocrazia” reiterando una “struttura binaria bloccata” sul ruolo frontale contrapposto e non comunicante del professionista che somministra materiale scientifico e del discente il quale, passivo, subisce l’ascolto rispondendo a verifiche modulari raramente calibrate e commisurate alle proprie esigenze profonde di Persona “sacra, solenne e ingiudicabile”. Convinzione radicata dell’autore è che proprio la scuola costituisca, invece, lo spazio privilegiato “per migliorare la qualità delle relazioni umane, piazza di scambi e stupori, riconoscimento e scoperta di ragazzi che hanno bisogno di certezze da distruggere, tesi da contestare, padri da uccidere, nemici da sconfiggere”, strumento decisivo – fra i pochi rimasti – di “resistenza etica” per diagnosticare l’atonia della società contemporanea, contrapporre – ricorrendo alla potente arma del linguaggio, “espressione strutturale e strutturante delle emozioni” – i valori guida di un’esistenza ben spesa (“rigore, coerenza, responsabilità”) ai falsi miti di una precaria contemporaneità e, alla fine, “scendere nella notte spirituale degli adolescenti”, nel loro malessere latente/inconfessato, tanto maggiore quanto più è marcato da miseria e squallore (“Non si può educare solo nella zona di sicurezza”, Bergoglio 2013).

Dolorosamente cosciente che “da una parte e dall’altra del tavolo siamo comunque pezzi mancanti, bobine da sostituire, chiodi da piantare, viti da stringere” e il senso di una vita che si avvia, di un’altra che riprende “tra occasioni sfruttate e combinazioni incontrollabili” assume ragioni se possibile ancora più essenziali e vitali in presenza del disagio, lo scrittore avverte l’urgenza – sull’esempio degli amati Don Bosco e Don Milani – di corroborare e saldare la propria proposta didattica alla dolente/indignata attenzione per i “dannati della terra”, i minorenni immigrati non accompagnati vittime di insensibilità, “paura delle contaminazioni e della promiscuità razziale”, abbandonati dalle loro famiglie in mare (non metaforicamente) aperto. Così per il timido e silenzioso Habib (hazaro) e Puja (Teheran), che riesce a leggere Solo e pensoso di Petrarca, per il musulmano bengalese Rehan, che avverte il fascino d Jissah/Gesù e i “festanti, irruenti” egiziani del Delta del Nilo, per Camara “giovane delle pietre insanguinate, dei pensieri in frantumi, dei chiodi sparsi nella sabbia subsahariana” e quanti vivono la vergogna di essere analfabeti nella lingua madre subendo la violenza di non poter progettare un’idea di sé nasce, dopo l’esperienza della “Città dei Ragazzi”, la Penny Wirton, istituto di italiano per extra-comunitari che, sostenuto dalla luce di un affetto e di una missione condivisi (la moglie Anna Luce Lenzi, collaboratrice instancabile) egli dedica al protagonista smarrito e volitivo di una favola di Silvio D’Arzo, che tanto deve all’apprezzamento di Montale e qualcosa a Spoon River: una sorprendente, “non pazza” struttura scolastica divenuta, dopo “gli esordi faticosi, itineranti e precari”, scommessa vinta e circuito di comunità diffuse sull’intero territorio nazionale. In clima di volontariato gratuito ed entusiasta alla Wirton ti accolgono con un sorriso, non si chiedono permessi di soggiorno, si segnano solo le presenze e anche cinque minuti vanno bene per insegnare a trovare se stessi in un rapporto “uno a uno” al termine del quale il riconoscimento delle vocali, la coniugazione di un verbo affascinante e impervio come il nostro, il corsivo e il lessico arrivano – se arrivano, non è determinante – come traguardi esaltanti e segnali di gratificante emancipazione per chi riesce ad uscire, grazie al potere liberatorio e libertario della parola, da uno stato di intollerabile minorità. Se sbagli non si arrabbiano, se non impari tanto meno, ti stanchi? giochi (magari chiedono di rifare l’esercizio…ci sta) perché quello che conta (e quanto questo vale per la scuola tout court!) è evitare il giudizio per mettere in fuga il pregiudizio, riuscire ad insegnare senza spiegare e ad incoraggiare senza valutare: basta “essere assetati e afferrare nomi e aggettivi come frutti di un albero” per diventare italiani insieme. E’ Barbiana, non Collodi. È l’altra scuola di Eraldo Affinati che “nello spettacolo della durata si emoziona, protesta, ama, puntella le stagioni evitando che scorrano come vapori evanescenti, educa per vivere, risana le piaghe, cuce gli strappi, lega il tempo allo spazio e i sogni alla realtà”, consente – pure questo conta – ad un pedagogia d’avanguardia di divenire (ottima) letteratura, nel senso meno retorico del termine, come emerge chiaramente dai passi che abbiamo volutamente riportato. Ci sembra, in proposito, importante sottolineare come, senza che il lettore se ne renda conto, Via dalla pazza classe costituisca anche un ricco, autorevole, prezioso prontuario per avvicinarsi alla letteratura otto-novecentesca che ognuno potrebbe/dovrebbe trasformare in autonomo itinerario di lettura, esaustivo se solo riuscisse a leggere la metà delle opere menzionate … e a vedere alcuni dei non meno fondamentali film citati. Si tratta, evidentemente, di modelli/incontri/riferimenti imprescindibili nella formazione della sua poetica: dai russi (Tolstoy, “il più grande scrittore insegnante che guarda le sue creature come Dio gli uomini” preferito a Dostoevskij “sconvolto sull’orlo del baratro”) agli americani S. Bellow di Herzog, Conrad (d’ufficio), Singer, con il suo “spaesamento ironico”, Yates, D. Thomas, il “miracoloso J. London e il misconosciuto Ph. Levine, senza dimenticare il “pedagogico” McCarthy de La strada, dagli esponenti/testimoni dell’Olocausto (A. Appelfeld, G. Perec, T. Borowski, E. Hillesum) a Kafka, che aiuta i profughi ebrei a Berlino “perché vi si può ricavare più miele che da tutti i fiori di Marienbad”, Bonhoeffer e Paul Celan. Fra gli italiani (il sodale M.R. Stern, Pascoli – Italy, evidentemente – Manzoni, il Pirandello dei tanti “Lanternoni “ spenti e dei precari “Lanternini”) ricorderemo solo il tributo, frequente e trasversale, a Leopardi da parte, fra l’altro, di un allievo dell’indimenticabile W. Binni: vittima di un’educazione sbagliata, fu promotore di “un’energia fantastica” contro l’illusoria fiducia in magnifiche sorti progressive e seppe consegnare a ciascuno la speranza in un solidale, non utopistico rapporto con la realtà insieme alla lucida testimonianza di una disperazione mai sterile e renitente, per questo tanto più eroica e propositiva. Nell’impossibilità anche solo di accennare alle numerose pellicole dedicate alla diversità, alla denuncia, alla difficoltà di accettare e farsi accettare (molto Truffaut, tra accattoni e umanissimi replicanti), un’osservazione finale merita lo stile di scrittura. Referenziale, oggettivo, paratattico e sequenziale, con enunciati spesso aforistici che condensano efficacemente le tesi emotive, si apre ad improvvisi squarci lirici, particolarmente suggestivi e riusciti quando tracciano intense, mai convenzionali immagini di Roma. “Prosa lirica? A professo’, ma cos’è?” (pp. 224-225, prima prova Esami di Stato) … il candidato non sapeva che il commissario esterno ne era un esponente né mai lo saprà, ma questo a Penny non cambia la vita.

Marco Camerini