Dieci anni di autonomia visti da un insegnante

Correva l’anno 2000 quando per la prima volta mi venne affidato dal collegio docenti un incarico di Funzione Strumentale per il P.O.F. (allora si chiamava Funzione obiettivo), nell’area del sostegno alla funzione docente (precisamente in ambito informatico). Avevo accolto con grande entusiasmo questo compito, che ho svolto per sette anni consecutivamente in modo molto appassionato. A questo incarico se ne sono aggiunti altri connessi con l’autonomia. In particolare, sono stato referente per l’orientamento in entrata nel 2001, e questo mi ha convinto a lavorare per il miglioramento e per la buona reputazione della mia istituzione scolastica sul territorio. È a questo proposito che ho sentito per la prima volta parlare di autonomia delle scuole.

Per quattro anni ho svolto la funzione di rappresentante sindacale RSU, e ho sempre vissuto questo mandato come una collaborazione con il Dirigente Scolastico. Purtroppo, l’avvicendarsi di docenti, non sempre all’altezza, a mio parere, dell’istituzione scolastica cui appartenevo, e una serie di altri motivi, mi hanno spinto a chiedere il trasferimento in un’altra scuola. Ho ricevuto notizie sulla scuola da cui provengo, che non fanno altro che confermare la mia sfiducia. Come è possibile coltivare il senso di appartenenza a un’istituzione, quando il corpo docente, nel giro di pochi anni, è cambiato per una gran parte? Io, che mi consideravo membro vitale di quella istituzione autonoma, adesso sono in un’altra scuola, in cui non svolgo più mansioni così importanti (ad esempio, non sono funzione strumentale al P.O.F.), forse anche per non ricevere le stesse delusioni, per una sorta di prudenza cautelare, come un innamorato che, dopo aver subito una cocente delusione, non ha più nessuna intenzione di spendere tempo ed energie per una nuova storia, viste le vicende pregresse.

La mia esperienza, pertanto, mi porta a una certa sfiducia riguardo l’autonomia scolastica. Questi dieci anni avrebbero dovuto essere gli anni del cambiamento radicale della scuola italiana. La spinta progettuale che aveva portato alla legge 15 marzo 1997 (articolo 21) e al regolamento DPR 275 del 1999, a me pare che si sia esaurita quasi del tutto. Nel concreto del nostro lavoro scolastico di insegnanti, soprattutto per noi docenti delle scuole superiori, non è cambiato quasi nulla. Continuiamo a chiamare il preside così, e non dirigente scolastico. Abbiamo fatto di tutto per conservare le nostre ore di cattedra, anche se l’autonomia ci spingeva a riconsiderare il monte ore. Abbiamo visto con ostilità qualsiasi progetto di riforma scolastica, che venisse da destra o da sinistra. Lo slancio iniziale, connesso anche con la possibilità di partecipare maggiormente alla gestione dell’istituzione, attraverso, per quanto ci riguarda, la nomina a funzione strumentale (ex funzione obiettivo) al P.O.F., è venuto meno, quando si è scoperto l’inganno.

Non era vero che le scuole si trasformavano in soggetti autonomi. Sono cambiate le sigle e i nomi, da Provveditorato si è passati a Centro per i Servizi Amministrativi, ma la sostanza non è cambiata più di tanto. La singola istituzione scolastica si è vista effettivamente dirottare molti compiti burocratici che prima spettavano al Provveditorato, ma non quegli incarichi che da sempre caratterizzano, in altri paesi, la reale conduzione autonoma di una scuola. Se spiegassimo che cosa significa per noi italiani “autonomia” a un insegnante inglese, facendogli capire che nella nostra autonomia non è previsto che le scuole possano decidere quali insegnanti assumere o ricevere donazioni da privati, quanto meno ci riderebbe in faccia.

Mi sembra che l’unico modo per rendere effettiva l’autonomia sia continuare sulla strada delle riforme. Una riforma è strettamente connessa con l’altra. Se non c’è un maggior potere, effettivo, delle regioni, l’autonomia rischia di essere sempre dipendente da un centro troppo lontano. Se le scuole non si trasformano in fondazioni, la gestione dell’istituzione scolastica rimane troppo complessa, e il gioco dei veti incrociati, fra collegio docenti e consiglio di istituto, non giova alla efficacia decisionale. Se non si sblocca la situazione delle risorse umane e finanziarie, non sarà possibile attuare una didattica innovativa. Sicuramente, il complicarsi della situazione politica, e l’astio con cui la maggior parte degli insegnanti osteggia qualsiasi tentativo di riforma, in modo pregiudiziale, costituiscono il primo ostacolo a un processo adeguato di riforme.

La classe docente sembra oggi più sfiduciata, e più conservatrice, che mai. Paradossalmente, sembrava più facile attuare nuove sperimentazioni tra gli anni Ottanta e Novanta, con i programmi Brocca nelle superiori, o con le riforme in altri gradi di istruzione, che non in questo nuovo millennio, in cui tutti hanno paura a sperimentare, per non correre il rischio di vedere vanificati i propri sforzi da un rivolgimento politico o da un avvicendamento ministeriale.

Eppure, la speranza, per quanto mi riguarda, non è morta del tutto. Noi insegnanti lo sappiamo, in fondo, che se ci limitiamo a vivere alla giornata, se non mettiamo radicalmente in discussione il nostro modo di rapportarci con i nostri alunni, siamo destinati all’insuccesso e all’avvilimento. Applicando questa riflessione all’istituzione scolastica in genere, saremo costretti a rivedere le nostre convinzioni, e allora ci renderemo conto che, o l’autonomia diventerà effettiva, il che vuol dire con un rapporto più diretto con il territorio, con l’utenza e con le domande e richieste emergenti nella società, oppure la nostra singola istituzione, così come la scuola italiana in generale, andrà incontro a un deterioramento inesorabile.

Luigi Gaudio