Il portiere orientatore

Chissà se mai leggerà queste poche righe colui che inconsapevolmente ha indirizzato il corso della mia vita. Fine anni ‘60, giocavo nel campionato riserve di una squadra di serie D, con qualche puntatina in prima squadra. Ed ero, come si suole dire, una “promessa”. Frequentavo con successo un Istituto Tecnico Industriale e con grande fatica riuscivo a farci stare anche il calcio. Quell’anno era arrivato un nuovo portiere, per me “anziano” anche se al massimo avrà avuto 35 anni, con il quale avevo stretto amicizia. La sua era stata una vita trascorsa sui campi di serie C, talvolta di B, in giro per l’Italia. E di questo percorso faticoso ne portava anche i segni fisici. Ma l’aspetto che più mi aveva colpito era la sua tristezza di fondo, dovuta – pensavo allora ma ancora oggi – alla carriera che stava concludendosi, non avendo egli accumulato una cifra che gli consentisse di vivere senza lavorare o di investire in qualche impresa commerciale. Era un po’, con gli occhi di oggi, nella condizione di uno studente di terza media o all’ultimo anno delle superiori, a un bivio, quindi; con la differenza sostanziale di avere poche carte da giocare in quanto nella vita aveva solamente fatto il calciatore. La nostra amicizia era fondata sul fatto che l’aiutavo a muoversi nel nuovo ambiente rispetto a esigenze quotidiane tipo “conosci un idraulico” oppure “conosci un posto dove si vende del vino buono”. Ma queste situazioni erano, per me, anche il pretesto per discutere di calcio, dell’essere calciatori e per farmi raccontare un po’ della sua storia. Volevo farmi guidare o orientare? Non so. È, comunque, in una di queste occasioni che mi disse: ”Stai giocando bene, hai dei numeri, abbi pazienza che verrà il tuo turno. Ricordati però di studiare”. Lì per lì non capii più di tanto il valore della frase. Ma successivamente, quando mi fu offerta l’opportunità di provare a fare il salto nel professionismo o quasi, mi tornarono alla mente quelle parole.

Per un ragazzo di 18 anni fare il calciatore a tempo pieno, vivere in albergo, essere riconosciuto, è molto affascinante; ma il rischio di rimanere impigliati in quello stile di vita e ritrovarsi a trent’anni con poco o niente in mano è elevato. Ho visto tante storie faticose di rientro nella normalità, fatta di case e non di alberghi, di cassa integrazione, di un lavoro da cercare ecc. Ebbene, in quei momenti decisionali, entrarono in gioco, in modo determinante, le parole dette e sottese del portiere con la faccia triste. E decisi che, nella mia vita, avrei investito soprattutto nello studio. Ancora adesso gli sono grato.

Tutte le scuole “fanno orientamento” e hanno progetti di pregevole fattura e che tengono conto di teorie e metodi. Ma restano aperte molte domande su chi e cosa guida e orienta davvero i ragazzi. E sul momento dell’incontro. Qual è il contributo della comunità di appartenenza più largamente intesa al progetto orientativo della scuola? Quali risorse può mettere in campo in termini di testimonianze autorevoli la comunità? Quale consapevolezza hanno genitori e mondo adulto sul proprio potere orientante? Quanto siamo consapevoli noi adulti di essere portatori di comunicazione latente che non passa necessariamente attraverso la parola ma attreverso frasi brevi e presenza e comportamenti, che ritornano alla mente dei ragazzi quando questi si trovano al bivio?

Claudio Stedile