Classi separate per gli immigrati? C’è chi dice no

Quel che colpisce negli approcci “economicistici” alla scuola è la tendenza a considerare i fatti sociali come elementi manipolabili e separabili in componenti, in qualunque contesto si manifestino. I fatti sociali, che pure si presentano complessi e quindi sovradeterminati, sarebbero manipolabili a piacere, a seconda del bisogno.
Questa posizione è evidente nell’articolo di Andrea Ichino “Per ogni straniero in aula gli italiani calano nei test, le ipocrisie da sfatare”, pubblicato sul “Corriere della sera” del 24 settembre u.s. (argomento ripreso da Renato Foschi su “Il Manifesto” del 16 ottobre u.s.).

Ichino basa le sue riflessioni su uno studio preliminare, da lui condotto con altri studiosi (R. Ballatore e M. Fort) sulla presenza di migranti nella scuola elementare italiana.
La riflessione dell’economista parte dai dati che mostrano una flessione di rendimento del 7% in italiano e del 12% in matematica, in seconda elementare, nelle classi con immigranti; il gap viene riassorbito nella quinta classe elementare.
Foschi mostra come Ichino confonda rilevanza con significatività.
In effetti, il dato è rilevante ma, con ogni probabilità, se si studiassero classi con forti componenti di disagio sociale, a prescindere dalle provenienze etniche, si otterrebbero valori dello stesso tipo.
Quindi i dati di per sé non sono significativi per avvalorare il paradigma che Ichino vuole sostenere: la negatività di partenza dovuta dalla presenza di migranti nelle classi.

In altre parole, banalizzando lievemente, questi dati vertono sul fatto che le classi con problematiche sociali hanno difficoltà maggiori di rendimento di quelle in cui tali problematiche non esistono.
Ma guarda un po’, verrebbe da dire! Inoltre, Ichino va oltre, e avvalora i suoi ragionamenti su illazioni e circostanze poco verificate. Sostiene, per esempio, che i presidi manipolerebbero la formazione delle classi raggruppando immigrazione e disagio economico-sociale.

Ma a cosa serve questa “invenzione”?
Si capisce poco dopo. Ichino considera assurdo anche il fatto che le classi si formino in modo neutro per sorteggio.
E allora?
Siccome l’autore non fa con chiarezza il passo successivo, lo si deve dedurre: se l’accorpamento immigrati-disagiati è sorprendente e l’assortimento casuale è assurdo, forse il suggerimento di Ichino – che invoca l’autonomia degli istituti nelle decisioni – è nella costituzione di classi di “immigrati”?
Ripeto, Ichino non lo dice ma viene ragionevole supporlo.
Anche perché l’economista ne parla in un’intervista a Radio 24 – riportata da Foschi sul Manifesto – in cui sostiene che la presenza di un non parlante italiano (si tratta quindi di un sottoinsieme dei migranti a scuola) fa “distogliere l’insegnante dal programma normale […] con effetti negativi sull’andamento della classe”.

Qualunque insegnante di buon senso capisce al volo che Ichino ha un’idea strampalata della scuola, purtroppo molto diffusa: c’è un programma “normale” (sic) da svolgere e le difficoltà didattiche sono una distrazione da questo compito kantiano.
Ichino ignora che la condizione concreta dell’insegnamento è quella di un docente che svolge il suo programma “anormale” (perché tutti i percorsi educativi concreti lo sono) immergendolo nel mare dei problemi didattici individuali.

È questo straordinario lavoro che non è compreso da chi non capisce che cosa sia la scuola. Ha, quindi, ragione Foschi quando evoca la questione del differenzialismo nei sistemi educativi. La selezione è un fantasma che si ripresenta puntualmente di fronte alle situazioni considerate eccezionali e che invece non lo sono: “troppi” poveri, “troppi” immigrati, “troppi” che vogliono andare a scuola.
E la risposta che ripetutamente viene da questa posizione è quella di semplificare il problema a valle, separando quello che la complessità dei fenomeni sociali ha invece unito in modo inestricabile.
Questa tendenza alla “elementarizzazione” dei fatti sociali è speculare alla convinzione che le condizioni economiche siano i dati immodificabili da cui partire.

Ichino, per sostenere la sua posizione, s’inventa polemicamente un interlocutore: chi vuole negare che la presenza di alunni immigrati costituisce un problema di integrazione.
In realtà, coloro che sostengono la necessità d’integrazione sono spesso gli stessi (studiosi, direttori didattici e insegnanti) che si pongono lo scopo di affrontare i gravi problemi didattici dovuti a situazioni di disagio e di dislivello culturale, e lo fanno spesso in contesti del tutto sfavorevoli.

Quindi, la differenza è tutta tra:
– chi cerca di elementarizzare i problemi sociali che si affacciano nella scuola;
– chi prende atto di una realtà sociale incontrovertibile e la affronta con mezzi spesso inadeguati.

Andrebbero adeguati i mezzi e non separate arbitrariamente le variabili.
Si possono definire sistemi di sostegno linguistico presenti laddove la spinta immigratoria è più forte, classi numericamente più contenute a fronte di condizioni educative complesse all’origine e modularità diverse del sistema educativo.

Penso, per concludere, che una riflessione sulle necessità didattico-strutturali imposte dall’afflusso – ancora mediamente contenuto – dei migranti sia inseparabile dalle riflessioni sul fare scuola nel quotidiano, sulla didattica e sulle strutture scolastiche.
Perché, con buona pace di Andrea Ichino, la normalità con cui abbiamo a che fare è proprio quella di fornire istruzione a una società complessa e variegata e non quella inventata del compimento di un fantomatico “programma normale”.

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Andrea Turchi